recensione

In politica il falso è più vero del vero

Fabio Martini racconta e smaschera l’Italia dal duce a Grillo in «La fabbrica delle verità»

di GIUSEPPE DE TOMASO

Governare è far credere, insegnava Nicolò Machiavelli (1469-1527). E meno male che il Maradona dei politologi, il maestro di generazioni di padrini, padroni e potenti vari, spalmava il suo genio in un’era in cui si comunicava come si camminava: piano. Altrimenti- se lui fosse vissuto nell’età di Facebook - chissà quali diavolerie il segretario fiorentino (sempre Machiavelli, non Renzi) avrebbe escogitato a beneficio della Razza Potentona di oggi e di domani.

Fabio Martini, collega della Stampa di Torino, segugio e analista di classe delle storie politiche di casa nostra, ha da poco inviato in libreria «La fabbrica delle verità» (201 pagine, Marsilio editore, 16 euro), un saggio sull’Italia della propaganda dall’età di Mussolini fino agli anni di Grillo. È un’opera che si legge tutta d’un fiato, sia per lo stile rapinoso dell’autore, sia per il tema e le chicche del testo, sia per l’assoluta pertinenza con la rivoluzione permanente della comunicazione: dal fatto che diventa notizia, alla notizia che fa notizia, al falso che si trasforma in notizia, alla post-verità che incide sulle scelte dell’elettorato.

A dire il vero, il potere è sempre stato bugiardo. Ma l’esplosione dei nuovi media ha, per così dire, vieppiù raffinato l’arte del messaggio menzognero e manipolatorio, coltivata da un uso della nuova strumentazione per fini quasi esclusivamente, e spesso scandalosamente, politici.
Il viaggio di Martini comincia con il Duce, pioniere del giornale come mezzo di battaglia politica e utilizzatore iniziale e finale della radio e del cinema come aggeggi fondamentali per il radicamento e la moltiplicazione del consenso. Mussolini è più rivoluzionario come comunicatore che come dittatore. Inventa un ufficio stampa che in breve tempo assumerà un rango ministeriale. Il Mascellone è bifronte: celebra se stesso, ma invita all’autodisciplina il resto dei gerarchi.
Poi fa il resto. Si trasforma nel Grande Fratello dei quotidiani nazionali, dettando una linea autarchica pure sul piano informativo, una linea profilattica che censura la cronaca nera e tutto il notiziame indigesto per le nostalgie e ambizioni littorie del Nostro. L’Italia, nella testa del super-redattore capo Benito Mussolini (1883-1945), dovrà apparire, sui nuovi mezzi di comunicazione, una nazione al di sopra di ogni sospetto.

Il fascismo svanisce e comincia la stagione di Alcide De Gasperi (1881-1954), cioè dell’uomo che Vitaliano Brancati (1907-1954) definirà «il contrario di Mussolini». Il cinema riparte con i capolavori neorealistici di cui tutto il mondo resta abbagliato, ma nel giro di pochi anni sono le forbici a tagliare, cioè a selezionare le insidiose pellicole d’autore. La cinecensura affidata al modus cogitandi di Giulio Andreotti (1919-2013) non risparmia nessuno, neppure il principe della risata. Più che sulle scene a sfondo sessuale le rasoiate del futuro Divo Giulio agiscono sui dialoghi allusivi di natura politica, sulle trappole di una trama classista del prodotto sotto esame. Gli episodi, gli interventi di cesoia non si contano. Molti, metà tragici metà comici, si rivelano quasi sempre esilaranti, se visti con gli occhiali della libertà dei moderni. Ecco Gian Luigi Rondi (1921-2016), giovane vecchio recensore di Paisà: «Perché mandare all’estero simili ritratti delle donne italiane? Non basta quello che diranno i soldati che tornano?»

Comunque. È una rincorsa continua tra innovazione e conservazione, tra sperimentazione e restaurazione. Un altalenarsi di situazioni che vede a sorpresa la Chiesa al centro del proscenio comunicazionale.
Anche se Pio X1 nel 1931 aveva definito il cinema «sorgente di male», la Chiesa non nasconde la sua antica passione per le immagini, tanto che il successore, Pio XII, verrà indicato da Andrea Riccardi come «il primo pontefice ad essere pienamente inserito in una società di massa».

L’avvento della tv produce l’effetto di un uragano nel rapporto tra politica e informazione. Sottostimata al suo esordio, la televisione di Mamma Rai diventa sùbito preda della gens fanfaniana al potere, tanto da indurre a un paradosso che avrebbe stupito persino Antonio Gramsci (1890-1937): il colosso pubblico catodico nell’orbita della Dc, l’editoria e il cinema controllati dai privati, ma sotto l’egida del Partito comunista.
Anche la Rai democristian-fanfaniana è una serra di censure ed autocensure, con una sessuofobia ultrapatologica e una pressione ossessiva a favore del linguaggio paludato (depurato di ambiguità e doppi sensi): roba che neppure Il Moralista interpretato da un irresistibile Alberto Sordi (1920-2003).
Ma anche la Rai imbavagliata prima o poi dovrà arrendersi. Sarà l’esplosione delle tv private a determinare la resa definitiva, avviando la procedura per il passaggio dalla tv dei partiti al partito della tv; e per la metamorfosi tv da strumento a obiettivo della contesa politica.

L’invenzione del talk show è dirompente, e Martini certifica la conseguente mutazione genetica dell’elettrodomestico simbolo della nuova Italia. Ma, citando Edoardo Novelli, l’autore segnala come «l’avvio del nuovo format segna l’inizio di un processo di degradazione dell’autorevolezza televisiva». Il cammino della videocrazia non conosce confini. Si passa dalla teleprogrammazione per educare il pubblico al palinsesto per catturare il pubblico, ovviamente a beneficio della pubblicità.
Ma la tv è più inafferrabile di una biscia. Quando la politica ritiene di poter manipolare il video quasi fosse un giocattolo domestico, proprio allora l’eterogenesi dei fini escogita l’inatteso. Ad esempio Michele Santoro, una sorta di Noè dell’antipolitica, di precursore involontario di Grillo.

E ora Matteo Renzi, il telepolitico per antonomasia. Il rapporto tra l’ex premier e la tv, in particolare la Rai, è decisivo - e Martini lo descrive con l’efficacia del testimone diretto - per le sorti del golden boy fiorentino. L’overdose da teleleader sarà fatale a lui e al referendum costituzionale, tanto da oscurare persino i successi del triennio di governo.
Ed ecco la post-verità, una vecchia conoscenza della politica, che nel 2016, grazie anche alle bugie on demand di Donald Trump, ha vissuto la sua apoteosi. L’Italia, ricorda Martini, è sempre stata un paese ben disposto alle sirene della post-verità. Il ministro e letterato Francesco De Sanctis (1817-1883) così descriveva nel 1869 questa inguaribile attitudine alla bugia e al retroscenismo: «In Italia ogni atto ha due lati, uno apparente e l’altro nascosto, vi è la scena e la controscena, perché le tradizioni della tirannide secolare ci hanno abituato alla cospirazione».

Infine il ciclone Grillo, frutto della rivoluzione internettiana. da anni capo assoluto dell’Internazionale della rabbia. Grillo è il padrone del web. Ma è innanzitutto figlio del web. Senza il web tutt’al più avrebbe conteso a Maurizio Crozza il ruolo di battutista di riguardo al Festival di Sanremo. Invece. La perdita di credibilità dei vecchi media ha accelerato il processo di osmosi tra lui, il suo partito-algoritmo e la Rete.
L’opera di Martini, rigorosa per le fonti, originale per le tesi, dirimente per la prospettiva, ci congeda con un interrogativo, mai esplicitato, che fa da filo d’Arianna nel labirinto della propaganda e della comunicazione. Fino a quando la fabbrica delle verità, cioè la fabbrica delle sverità, potrà sfornare le sue avariate merci immateriali senza compromettere il rapporto di fiducia tra gente comune e istituzioni, che resta l’unico collante in grado di evitare la disgregazione della nostra democrazia? Già, fino a quando?

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