L'editoriale sullo scontro fra treni

Costi, privilegi e disastri del localismo ferroviario

Giuseppe De Tomaso

GIUSEPPE DE TOMASO

Incredibile. Ci sono i soldi da investire in sicurezza, ma non vengono spesi. Però, i soldi per investire in nuovi treni locali, bene o male, si trovano. In tal modo, paradossalmente, crescono i rischi e diminuiscono le garanzie di incolumità per i viaggiatori. Non solo. Più aumenta il numero dei treni, più, ovviamente, diminuisce l’intervallo tra una corsa e l’altra. Il che può creare problemi ed equivoci tra due stazioni abituate alla comunicazione telefonica, ma potrebbe creare difficoltà anche dopo l’installazione del più sofisticato controllo elettronico (Sistema Controllo Marcia Treno). Più prolungato è l’intervallo, più sicuro ed efficace è il funzionamento del paracadute digitale. Ma se i treni dovessero susseguirsi come ciclisti al Giro, anche il Sistema Controllo Marcia Treno andrebbe in tilt.

Morale. Servono gli stessi standard di sicurezza ferroviaria sia per le linee primarie che per quelle secondarie.
Non si capisce perché l’affidabilità, anche in termini di sicurezza, della linea di RFI (Rete ferroviaria italiana) nel Belpaese raggiunga livelli eccellenti, riconosciuti da tutti anche all’estero, mentre l’affidabilità della rete locale lasci molto a desiderare (eufemismo). Non si capisce perché RFI (anche per merito del suo precedente amministratore delegato Michele Mario Elia) sia stata la prima al mondo ad adottare dappertutto l’ERTMS (European rail traffic management system) un raffinato sistema di gestione, controllo e protezione del traffico ferroviario, con relativo segnalamento a bordo, mentre sui binari locali si fa prevenzione e protezione col colloquio telefonico, col fonogramma. L’ERMTS, per spiegare, serve a sostituire i molteplici e incompatibili sistemi di circolazione e sicurezza delle varie Ferrovie Europee allo scopo di garantire l’interoperabilità dei treni soprattutto sulle reti ad alta velocità.

Perché allora non mettere anche le reti ferroviarie locali sotto il controllo di RFI, ossia della grande rete nazionale? Il buon senso suggerirebbe questa risposta: muoviamoci sùbito, anzi avremmo già dovuto convogliare le ferrovie locali sotto il mantello di RFI. Infatti. I vantaggi immediati si raddoppierebbero: più sicurezza, più risparmio. Maggiore protezione si otterrebbe grazie ai più rigorosi standard adottati sulla Rete nazionale e all’attività di controllo dell’Agenzia per la sicurezza delle Ferrovie (ANSF), che, però, non opera però sulle linee secondarie, assegnate all’Ufficio speciale trasporti a impianti fissi (USTIF), ente periferico del ministero organizzato in 7 divisioni interregionali, e dalla normativa, per così dire, più elastica. Di conseguenza, a voler stabilire una filiera di responsabilità nei controlli di sicurezza sulle linee regionali, al primo posto va collocata la struttura ministeriale e al secondo posto la struttura delle Regioni. Ora. Sarebbe utile che anche l’ANSF si occupasse della rete locale.

E veniamo ai costi del localismo ferroviario. Un cospicuo risparmio verrebbe assicurato dall’eliminazione di sigle e potentati aziendali locali, che spesso si distinguono per voracità di comando, gestioni predatorie, arricchimenti personali, salassi per i contribuenti, commistioni politiche. Roba che i protagonisti della Casta di Rizzo e Stella fanno la figura delle educande.
Affidare alla Rete nazionale le rotaie locali significherebbe tagliare i consigli di amministrazione con relativi gettoni, significherebbe fermare il giro di consulenze agli amici e alle amiche. Vorrebbe dire, anche, bloccare sul nascere la tentazione, per i vertici aziendali, di farsi assumere in pianta stabile per evitare, a fine mandato, il pericolo disoccupazione. Vorrebbe dire, in una parola, tentare di prosciugare il mare sporco della politica e della parapolitica. Significherebbe creare le premesse per più trasparenza e meno corruzione.

Raffaele Cantone, presidente dell’Autorità Anti-Corruzione, ha perfettamente ragione: «Le infrastrutture sono ferme in Italia anche per colpa della corruzione». Purtroppo la classe politico-burocratica, con relativo sottobosco, non ha la minima intenzione di rinunciare ai vantaggi, ai benefit, ai simboli materiali e immateriali del potere. E così, in nome della lesa sovranità, del federalismo regionale e del territorio da tutelare, la nomenklatura locale si mette di traverso ad ogni ragionamento, ad ogni rasoio teso a tagliare poltrone, incarichi, appalti, sub-appalti, spese di rappresentanza, auto blu e orpelli vari. Del resto, federalismo dello spreco e federalismo della corruzione (frutti della riforma del Titolo Quinto della Costituzione) pari sono. Anzi, coincidono.
Se l’Europa sbanda e sperpera, apriti cielo. Ma se le Regioni fanno altrettanto, vanno capite e giusitificate in nome dell’autonomia, del federalismo, del sovranismo, e di altri sacri princìpi che su certe facce stonano come una minigonna durante un’udienza dal Papa. Di conseguenza, prevale la logica feudale: giù le mani dalle torte regionali, abbasso il centralismo di Stato. Ma si può ragionare così? Si può, si può, ripeteva sconsolata la buonanima di Franco Sorrentino (1923-2001).

A dire il vero Regioni come la Lombardia e l’Emilia Romagna hanno cominciato a semplificare la ragnatela del trasporto ferroviario locale. L’Emilia Romagna ha accorpato le sue cinque aziende in concessione. E il neonato gestore unico ha provveduto ad adeguarsi agli standard di sicurezza stabiliti dalla Rete ferroviaria italiana. Via d’uscita? Rete unica per le linee primarie e secondarie, con - si capisce - identici sistemi di sicurezza. Rete unica pubblica. Apertura al mercato, anche ai privati, per gli operatori, cioè per le aziende attive nella gestione del trasporto ferroviario di passeggeri e merci. È solo un sogno. E come tutti i sogni è destinato a morire all’alba.

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