L'intervista

«Ho trasformato il salto in alto nel teatro in cui prima danzavo»: parla Antonella Bevilacqua

PATRIZIA NETTIS

È stata l’atleta di punta dell’atletica pugliese, con quel record indoor di 1,98 inviolato per 13 anni

La sua vita non salta più ai due metri d’altezza, ma l’asticella non ha smesso di puntare obiettivi ambiziosi. Perché se si è stati abituati ad andare sempre oltre è difficile restare fermi con i piedi per terra. Antonella Bevilacqua, 50 anni ad ottobre 2021, è stata l’atleta di punta dell’atletica pugliese. Oro ai Giochi del Mediterraneo di Bari nel 1997, 13 volte campionessa nazionale, ha detenuto per 13 anni il primato indoor con la misura di 1.98. Oggi è preparatrice atletica di tennis e atletica nella sua Foggia.

Dodici anni dal ritiro nel 2008: quanto le manca l’atletica?
«Poco perché in realtà ci sono ancora dentro. Mi manca più che altro il confronto quotidiano con i miei limiti, perché questo significa mettersi alla prova sempre. Mi mancano le sensazioni del salto, quello che si prova quando si tenta di oltrepassare l’asticella».

E la passione per il tennis?
«L’ho sempre avuta. Giocavo di nascosto. Me lo impedivano per timore che mi facessi male. Poi, quando sono rientrata a Foggia lavoravo come preparatrice atletica di basket, ma per un incontro casuale ho iniziato nel tennis. Che è molto diverso, perché la preparazione atletica non è considerata ancora come punto centrale su cui indirizzare una carriera, ma nella gestione dell’ansia e della focalizzazione del gesto credo ci siano molti punti in comune tra pista e racchette».

Il suo primato indoor è durato tredici anni, che effetto le fa?
«I record sono fatti per essere superati. Da te stesso o da altri. La durata di un primato serve più che altro a dare indicazioni tecniche importanti».

Ci spieghi meglio
«Quando un record dura tanto significa due cose: o che hai fatto troppo bene o che ci sono buchi generazionali e quindi bisogna lavorare per colmarli».

E nel suo caso di cosa si è trattato?
«Non lo so, non posso saperlo. Ma io penso di aver fatto molto bene nella mia carriera e di questo sono soddisfatta».
E quando nel 2007 la Di Martino l’ha battuto cosa ha pensato?
«Le ripeto, i record sono fatti per essere superati. Anche quelli dei più grandi come Sara Simeoni (a cui la Bevilacqua aveva strappato il primato nel 1994, ndr) e Pietro Mennea. È la storia dello sport».

Come si fa a saltare in alto per un tempo così lungo?
«Ci si allena tanto, anche mentalmente. E si cerca di essere leggeri dentro e fuori. Io invece, che ero sempre un po’ più bassa delle avversarie, mi vedevo anche grossa, eppure so che non era così».

La più grande gioia della carriera?
«Nel 1997 quando superai i due metri, ma poi l’asticella cadde. Quel salto veniva subito dopo Atlanta 1996 ed è il ricordo a cui sono più legata, anche se è difficile isolare una carriera in un momento».

Il più grande rammarico?
«Nel 2004. Sarei dovuta andare ad Atene invece qualche tempo prima in aeroporto, durante una corsa tra gli imbarchi nazionali e internazionali, inciampai nel trolley. Sentì subito un dolore al tendine d’Achille, ma dovetti comunque partecipare alla coppa Europa in Turchia. Poi però il tendine risultò lesionato. Ho dovuto subire due operazioni di ricostruzione. E così le Olimpiadi le ho viste con il gesso sul divano».

E tutto per una corsa in aeroporto, non un infortunio in pista. Sembra quasi una contraddizione.
«Ebbene sì, ci penso tuttora. Ma sono cose accadano, purtroppo».

È una medaglia olimpica quello che è mancato alla sua carriera?
«Sì, ma la verità è che mi è mancato saltare 2-3 cm in più. Avrei potuto farcela, ma erano tempi diversi. Adesso c’è un supporto maggiore alla prestazione, si parla tanto di psicologia dello sport. Prima non era così. In realtà io sapevo che se fossi riuscita a saltare quei due cm in più la mia vita sarebbe cambiata. E io ho sempre avuto paura dei cambiamenti, questo mi ha bloccato. Forse con un supporto psicologico sarebbe stato diverso».

Quanta valenza sociale ha lo sport in una città come Foggia?
«La stessa che ha dappertutto perché lo sport ti pone in rapporto con i propri limiti e ti insegna come superarli. Ai nostri tempi la palestra era la strada. Lì si costruivano le capacità motorie di base e ai tecnici spettava solo il compito di mettere insieme i pezzi. Ora invece è il contrario, dobbiamo togliere i ragazzi dalla strada e dai suoi pericoli e dal bombardamento della tecnologia, e quindi dobbiamo incominciare tutto da zero. E’ un lavoro più complicato».

Ancora di più al Sud?
«Dipende dalle realtà. A Foggia non è facile perché la pista non è ben messa, non abbiamo l’illuminazione, non abbiamo una palestra. Dobbiamo davvero fare i salti mortali».

Perché proprio il salto in alto nella sua carriera?
«A 8 anni avevo già saltato 1.10, più in alto dei miei coetanei maschi. Facevo danza moderna e sognavo di fare la danzatrice. A 12 anni ho saltato 1.43 e ho capito che forse era il caso di passare all’atletica. Il salto in alto l’ho odiato perché mi ha tolto dalla danza, ma poi ho trasformato quella pedana in un teatro dove realizzare armonicamente il mio sogno di danzare. La scelta dell’atletica non l’ho fatta io, ma altri l’hanno fatta per me. Adesso sarei io a rifarla».

Si allena ancora?
«Mi tengo in forma, mi alleno con i miei ragazzi. Ma non salto più, anche perché quella è la prima cosa che si perde».

Come si vede fra qualche anno?
«Non guardo, preferisco costruire l’oggi con la consapevolezza che il presente è un punto di partenza per saltare sempre oltre».

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