La discussione in parlamento
Il caso Xylella alla Camera Divergenze tra gli studiosi
Dalle audizioni degli esperti in Commissione agricoltura emergono analisi antitetiche sul fenomeno e sulle soluzioni
Con le audizioni degli esperti, nell’ambito dell’indagine conoscitiva sulla diffusione della Xylella in Puglia, anche nella Commissione Agricoltura della Camera si sta riproponendo plasticamente la divergenza di posizioni scientifiche sull’emergenza e la necessità di coordinare le ricerche in corso per sconfiggere il patogeno da quarantena o almeno conviverci.
Cristos XyloYannis, docente di Frutticultura presso l’Università della Basilicata, è scettico sulle misure di contenimento della batteriosi previste dall’Ue nella zona infetta, cioè l’eradicazioni degli ulivi malati e delle piante intorno nel raggio di 100 metri: «La norma non viene applicata – sostiene – altrimenti dovremmo creare il deserto». Inoltre il professore assicura che in Puglia «non si può sostituire l’ulivo con altre produzioni che chiedono acqua, perché l’andremmo a prendere dal sottosuolo e con 4 tonnellate di sale per ettaro l’anno si arriverebbe alla desertificazione». Piante tropicali sconsigliata anche dalla patologa vegetale Antonia Carlucci dell’Università di Foggia, che invita a fare ricerca genetica non solo sulle cultivar resistenti alla Xylella, ma di creare delle linee genetiche immuni.
Il patologo vegetale dell’Università di Bari, Franco Nigro, afferma che l’area infetta non è perduta e deve essere gestita, senza rinunciare al monitoraggio continuo da parte dell’Osservatorio Fitosanitario della Puglia. Emilio Stefani, rappresentante per l’Italia al Panel Eppo, ammette che «il coordinamento dei ricercatori è mancato, ma nella fase iniziale, insieme al collegamento con il servizio fitosanitario regionale». «Fino ad un anno e mezzo fa – come spiega l’entomatologo Francesco Porcelli dell’Università di Bari – non avevamo un metodo di campionamento, ma ora è possibile un sistema controllo, abbattendo in modo sostenibile le piante infette. E il monitoraggio – sottolinea – non è un’attività di contrasto».
A prendersela con il glifosato è Margherita Ciervo, geografa dell’Università di Foggia, che partendo dalla correlazione tra povertà del suolo, dove meglio sviluppano i patogeni, e trattamenti con prodotti chimici (studio Habbard, Usa), ha analizzato i dati Istat sulla distribuzione di fitofarmaci dal 2003 al 2008, verificando che quella di Lecce è la prima provincia per uso di erbicidi (4,5 Kg per ettaro) in termini assoluti, e Brindisi la seconda in termini relativi (4,04 Kg/ha). Ciervo riporta inoltre due documenti dell’Efsa per sostenere che anche all’Autorità Europea mancano le evidenze scientifiche del successo dell’eradicazione. La biologa e fitopatologa Margherita D’Amico, responsabile del progetto «Sistemi di lotta ecocompatibili contro il Codiro», ha constatato che proprio nel Salento le specie vegetali predominanti sono quelle resistenti al glifosato e chiede di verificare se l’erbicida non sia entrato nelle radici dell’ulivo, che nel Salento sono risultate spesso marce. Franco Nigro, docente di Patologia vegetale a Bari, però, contesta l’idea che il Salento sia «una discarica di glifosato», e ai deputati assicura che gli espianti chirurgici, che funzionino oppure no, sono necessari per convivere con la malattia e consiglia gli interventi agronomici e l’uso di fitofarmaci, escludendo però che l’olivicoltura bio sia indenne da Xylella.