istruzione
Classi «pollaio» cercasi: chi ha detto che in tanti non s’impara?
Classi troppo piccole possano addirittura essere controproducenti perché drenano risorse che potrebbero essere investite meglio
L’Italia sta affrontando una crisi demografica profonda. Perde popolazione (anche scolastica) a ritmi impressionanti. A Sud più che a Nord. Basti pensare che, in soli cinque anni, abbiamo perso l’equivalente dell’intera popolazione di una città come Torino o di due città come Bologna e Firenze messe insieme.
Pensateci: è come se due regioni come Molise e Basilicata sparissero dai conteggi dei demografi. Con questi dati sotto gli occhi mi sono chiesta come non appaia del tutto anacronistica ai suoi stessi promotori (AVS) l’iniziativa di raccolta firme contro le classi pollaio e il sovraffollamento delle aule. Ma dove sono queste «classi pollaio»? Dove si annida il sovraffollamento? Forse nel secolo scorso, quando aule con trenta studenti erano l’esperienza comune di molti insegnanti. Compresa la mia mamma, maestra elementare particolarmente reputata: non riusciva a dir di no alle richieste di accoglienza di nuovi pargoletti e le sue classi conteggiavano – normalmente – trentotto, quaranta bambini. Sola in aula, lei come tanti suoi colleghi, governava quel gruppo vociante con cultura e infinito amore, ingredienti necessari per tacitare anche il più indisciplinato dei suoi scolaretti.
Ma nel nuovo secolo le cose sono molto cambiate. L’incremento significativo del numero di docenti (in particolare sul sostegno) e la riduzione del numero di studenti collocano oggi l’Italia ampiamente al di sotto della media OCSE per numero di allievi per classe.
Le cosiddette «classi pollaio» sono un fenomeno raro: nella scuola primaria sono lo 0,1% delle prime, lo 0,5% in V primaria, mentre le prime primarie più affollate sono ora solo lo 0,1%. E il numero medio di allievi per classe è pari a 20 allievi nelle V primarie, mentre nelle attuali prime è di 18,6 allievi, dimostrando che è già in corso una riduzione progressiva degli allievi per classe.
Peraltro l’ipotesi ventilata da AVS per giustificare la raccolta firme, ovvero che le classi numerose correlerebbero con basse performances degli studenti, non ha alcun fondamento scientifico. Lo dico da ricercatrice e lo dicono le cifre. Nella scuola secondaria di I grado la percentuale di studenti con difficoltà di apprendimento si attesta intorno al 3,2 per cento nelle classi con meno di 20 alunni, mentre scende all’1% per cento nelle classi con un numero di allievi compresi tra 20 e 25 allievi, per rimanere poi all’1,1% se la dimensione media di classe supera i 25 allievi. Esiti del tutto analoghi si osservano anche al termine della scuola secondaria di II grado.
Eric Hanushek, economista di Stanford e tra i massimi esperti mondiali del tema, ha dimostrato attraverso analisi comparative che non esiste una relazione sistematica tra la riduzione del rapporto alunni-docente e i punteggi nei test standardizzati. E a detta di Hanushek l'aumento massiccio della spesa pubblica per diminuire il numero di studenti per classe negli Stati Uniti e in Europa negli ultimi decenni non ha prodotto l’atteso miglioramento delle competenze.
I dati PISA (Programme for International Student Assessment) dell'OCSE dimostrano che i sistemi scolastici con le migliori performance mondiali (come Singapore, Corea del Sud o alcune province cinesi) presentano classi significativamente più numerose della media europea (spesso oltre i 30 alunni). Mentre qualità dell'insegnamento e prestigio reputazionale della professione docente sono variabili molto più predittive del successo dello studente (gli «ingredienti» della mia mamma nel secolo scorso).
Infine classi troppo piccole possano addirittura essere controproducenti perché drenano risorse che potrebbero essere investite meglio (in stipendi più alti, per esempio, come ha fatto il Ministro Valditara). Agli amici di AVS vorrei dunque dire: prima di far partire la prossima raccolta firme studiate, studiate, studiate!