La riflessione

Giù le mani dai «bambini del bosco»

Leonardo Petrocelli

Madre, padre e bambini sembrano usciti da un saggio di Serge Latouche, il padre della «decrescita felice» che tanta fortuna ebbe qualche anno fa prima che sulla scena irrompesse Greta

Quando eravamo bambini, al tempo delle fiabe, nei boschi c’erano i lupi. Oggi, nel tempo cupo della realtà, ci sono i magistrati e gli assistenti sociali. L’ha scoperto a sue spese la famiglia anglo-australiana di Palmoli, in provincia di Chieti, cui sono stati sottratti i tre bambini (di età fra i 6 e gli 8 anni) dal Tribunale dei minori dell’Aquila, prontamente collocati in una casa famiglia.

La colpa? Quella di aver scelto di vivere in un casolare nel bosco senza allaccio all’elettricità e al gas, ma dotato di pannelli solari, stufa, cucina a legna e un bagno secco. L’acqua la prendono dal pozzo e dal ruscello. Coltivano l’orto e allevano animali, provvedendo all’istruzione dei figli attraverso l’home-schooling, cioè la formazione parentale. I bambini, insomma, non vanno a scuola e questo, secondo il Tribunale, pregiudicherebbe lo sviluppo delle loro capacità relazionali. Un problema cui si sommerebbero quelli dell’igiene, della sicurezza dell’abitazione, delle vaccinazioni. Da cui lo stop alla potestà genitoriale e il trasferimento dei bimbi. Da parte sua, l’avvocato della famiglia, Giovanni Angelucci, ha già pronto il ricorso carte alla mano: il casolare sarebbe stabile, i bambini sono felici, puliti e in ottima salute, oltre che vaccinati (mancherebbero solo i richiami, in realtà). La famiglia, inoltre, coltiverebbe costanti rapporti con la comunità cittadina - che, infatti, sindaco in testa, si è schierata compatta al loro fianco - senza chiudersi in una specie di eremitaggio volontario. Se state pensando ai bifolchi dei film americani, con la spiga di grano in bocca, che accolgono a fucilate chiunque si avvicini al ranch vi sbagliate di grosso. Lo dimostrerebbe, per di più, l’incipit di tutta questa faccenda a cui le autorità hanno iniziato a interessarsi quando la famiglia si è rivolta al locale ospedale (e non a uno stregone...) per una intossicazione da funghi.

La guerra di carte e ricorsi, sulla pelle dei malcapitati bambini, sarà lunga. Ma ci viene promesso che sarà una battaglia, se così si può dire, puramente «tecnica», tutta nel merito. Non c’è altro di mezzo, figuriamoci. Sarà, ma se davvero assistenti sociali e magistrati avessero così a cuore l’igiene, istruzione, la qualità della vita relazionale dei bambini, oltre alla loro sicurezza, dovrebbero trascorrere le giornate a irrompere nei campi rom di tutta Italia, dove le condizioni dei minori sono incomparabilmente peggiori di quelle dei piccoli del bosco. O, in negativo, non dovrebbero concedere «incontri liberi» a madri che poi sgozzano i figli nel sonno. La sensazione è che nella storia di Chieti ci sia qualcosa di diverso, cioè l’avversione, quasi poliziesca, da stato totalitario, per uno stile di vita che si dissocia da quello apparecchiato dall’Occidente per i suoi cittadini. Quelli soli, senza santi in paradiso, senza deroghe fornite dai cantori del meticciato e del pluralismo a corrente alternata.

Curiosa società, la nostra. Ama l’ambiente ma odia la natura, quella vera, che noi non abbiamo creato e su cui non abbiamo controllo. Tutela la diversità ma solo se ha la spilla arcobaleno appuntata sul petto: allora sì, non importano il «cosa» e il «come», l’importante è «che ci sia amore». Nel bosco di Chieti l’amore c’era ma non era sufficiente. Non sia mai i bambini non facciano le cinquemila vaccinazioni in calendario, non si brucino gli occhi su un telefono, non frequentino scuole dove invitano Saviano o ti spiegano quanto sia bella l’Europa dell’austerità e dei riarmi. Anzi, chissà cosa gli insegnano nell’educazione parentale: sarà qualcosa di fascista da «sangue e suolo» o da rivoluzione guevarista? Vallo a sapere... E poi questa famiglia che autoproduce e autoconsuma, che non brucia soldi per comprare una Tesla o per partecipare al gran ballo dello shopping, con quale diritto si avventura in un altro modello di vita? Con quale diritto «passa al bosco» per dirla con Junger?

Madre, padre e bambini sembrano usciti da un saggio di Serge Latouche, il padre della «decrescita felice» che tanta fortuna ebbe qualche anno fa prima che sulla scena irrompesse Greta a dirci di sostituire la vecchia Panda con un’elettrica da 50mila euro. Di Latouche non si parla più perché l’ambiente fa girare l’economia, ma la natura no. Al massimo va bene in vacanza, non certo tutti i giorni. Vivere diversamente è reato, a quanto pare, almeno per il pensiero progressista. Bene, una volta tanto, ha fatto il governo a prendere di petto la faccenda e immaginare di inviare gli ispettori ministeriali a dare un’occhiata, mentre dall’altra parte la sinistra ha saputo solo far quadrato intorno ai magistrati e invitare Salvini a «non strumentalizzare». Cercasi un pensiero autonomo disperatamente (e inutilmente). Anche perché oggi è toccato agli anglo-australiani di Chieti per la loro esistenza da hippy. Domani toccherà a qualcun altro per motivi ideologici, religiosi, culturali. Ma vivere diversamente non può essere reato. E dare per scontato che la salvezza abiti solo tra i grattacieli dell’Occidente dei disturbi alimentari e degli attacchi di panico, è piuttosto patetico. Viva il bosco, allora. Almeno quello in cui i lupi non hanno la laurea.

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