il commento
L’unica manovra possibile, ma in futuro il governo punti di più sulla crescita
Oggi il governo Meloni diventa il terzo più longevo della storia repubblicana. Non è un particolare di poco conto, visto che il podio di questa classifica è costituito solo da governi di centrodestra
Oggi il governo Meloni diventa il terzo più longevo della storia repubblicana. Davanti ci sono solo gli esecutivi Berlusconi II e IV, che si collocano rispettivamente al primo e al secondo posto. Non è un particolare di poco conto, visto che il podio di questa classifica è costituito solo da governi di centrodestra. Una coalizione che negli ultimi trent’anni ha saputo individuare anzitutto un metodo di lavoro per perseguire obiettivi programmatici di lungo periodo, nonostante le differenti sensibilità dei partiti della coalizione. Ho già avuto modo di evidenziare sulla Gazzetta del Mezzogiorno che molti dei risultati positivi dell’esecutivo in carica dipendono dalle capacità personali della premier e dalla stabilità politica. Un elemento quest’ultimo di grande rilevanza, se solo pensiamo a quanto è accaduto in passato nel nostro Paese o a quanto sta accadendo in questo frangente storico in Francia, solo per fare un esempio. È proprio in nome della stabilità politica che la Meloni è tornata ad insistere da qualche giorno sul premierato, legando a questa riforma la produzione di effetti non solo politici, ma anche economici. Il governo tende a fare quel che può, senza ricorrere a promesse roboanti e ad esercizi di doping comunicativo che, in altri contesti politico-istituzionali, hanno creato pericolosi corto circuiti, contribuendo all’indebolimento progressivo del modello della democrazia rappresentativa.
Credo sia questa la chiave migliore da adottare per interpretare lo spirito della legge di bilancio approvata venerdì scorso e presentata alla stampa dal Presidente del Consiglio Meloni, dai due Vicepresidenti Tajani e Salvini e dal Ministro dell’Economia e delle Finanze Giorgetti. Uno accanto all’altro a riprova dell’equilibrio trovato su molti aspetti controversi, a partire dal nodo forse più difficile da sciogliere, ovvero quello del contributo da far pagare al sistema bancario ed assicurativo. La Meloni ha detto che, in vista della sua quarta manovra da quando siede a Palazzo Chigi, sono state usate al meglio le poche risorse disponibili, senza tagliare i servizi pubblici e senza ridurre la qualità degli interventi statali. L’obiettivo è stato palese fin dall’inizio: varare misure che riescano a dare una boccata d’ossigeno a famiglie e imprese, ma sempre nei limiti del possibile ed avendo consapevolezza del quadro di finanza pubblica.
Come è noto, quando si elabora la manovra economica, almeno lato gestione della spesa (che quest’anno si appesantisce ulteriormente per via degli investimenti in ambito difesa), o si aumenta il debito pubblico o si opera una significativa spending review. In passato si è ricorso alla logica discutibilissima dei tagli lineari, rinunciando aprioristicamente alla valutazione delle priorità, che invece è un compito precipuo della politica. Con la manovra 2026, che ora passa al vaglio del Parlamento, si è cercato un punto di equilibrio tra i due estremi, volendo mantenere l’impegno non solo a non aumentare la pressione fiscale, ma anche a diminuirla.
Partiamo dall’Irpef. L’aliquota per i redditi che si collocano tra i 28mila e i 50mila euro si riduce dal 35 al 33%. Una misura destinata al ceto medio, come ha spiegato la stessa premier. Peserà nove miliardi in tre anni: cifra considerevole che, secondo l’opinione di alcuni economisti, non è tuttavia sufficiente ad innescare effetti economici significativi, anche se rappresenta un chiaro segnale politico. Non si trascuri, infatti, che il beneficio fiscale di questa novità in materia di Irpef potrebbe sfiorare anche la quota massima dei 440 euro annui, sebbene va sottolineato che ciò può avvenire concretamente a beneficio di situazioni reddituali non molto diffuse nella popolazione italiana. Si ricordi, altresì, che la sterilizzazione del taglio dell’Irpef avverrà sopra i 200 mila euro.
Veniamo ora alle altre misure. Sale da 40 a 60 euro il bonus per le mamme lavoratrici che abbiano almeno due figli e che non superino il tetto Isee dei 40mila euro. È al 5% la tassazione degli aumenti contrattuali per redditi fino ai 28mila euro, soglia non coperta dal taglio Irpef, mentre l’abitazione principale esce dal calcolo Isee fino al raggiungimento del tetto dei 92mila euro. Nel contempo vengono prorogate le detrazioni sui lavori per prima (50%) e seconda casa (36%). A proposito di boccata d’ossigeno per singole persone fisiche e per famiglie, non si dimentichino le risorse in più per la sanità, che aumenta di ulteriori 7,4 miliardi in 3 anni per finanziare l’assunzione di nuovo personale sanitario ed incrementarne la retribuzione. Discorso a parte merita la rottamazione: si tratta della quinta sanatoria delle cartelle esattoriali con pagamenti fino a nove anni. Riguarderà solo i carichi affidati alla riscossione entro fine dicembre 2023. Per l’aumento dell’età pensionistica, inoltre, la nuova sterilizzazione è confermata con un mese in più a partire dal 2027 e con due mesi in più a partire dal 2028. Previsto un incremento di 20 euro mensili per le pensioni minime.
Per quanto concerne le attività produttive, torna il superammortamento a sostegno delle imprese e dell’innovazione. Torna insieme al bonus per le zone economiche speciali (già rivelatesi una carta vincente) ed insieme al rifinanziamento della nuova legge Sabatini.
Prorogato, infine, lo stop a plastic e sugar tax.
La manovra economica pesa in totale 18,7 miliardi. Non è certo la legge di bilancio dei desideri, ma è l’unica possibile, considerando la situazione internazionale e la pesante eredità dei conti pubblici. Del resto, solo nel 2026 il superbonus costerà allo Stato 40 miliardi. Le opposizioni vanno all’attacco del governo, giudicando troppo debole l’impianto complessivo della manovra. Lo stesso fanno Cgil e Uil. Il presidente di Confindustria ha riconosciuto alla Meloni piena disponibilità a dialogare, pur avendo chiesto al governo maggiore coraggio per favorire lo sviluppo economico. Emanuele Orsini ha parlato di un «buon primo passo». Dal canto suo, la Meloni tende sovente a ricordare che lei guida un esecutivo «produttivista» e che con il numero uno di viale dell’Astronomia l’interlocuzione avviene sempre nel merito e sempre con il massimo di franchezza. Lo stesso accade con i rappresentanti di altre categorie produttive, come per esempio Coldiretti, almeno per ciò che concerne lo strategico settore dell’agricoltura. La Cisl, guidata da Daniela Fumarola, si distingue dagli altri sindacati confederali poiché punta ad un «nuovo patto» tra le parti sociali. Un patto, cioè, capace di catalizzare le migliori energie e rilanciare prospettive di sviluppo condivise, superando le antiche logiche conflittuali dal forte sapore ideologico.
Pragmaticità e realismo, gradualità, visione di sistema possono rappresentare il modus operandi migliore per costruire un futuro dell’Italia compatibile con l’incremento della produttività, con la crescita e l’innovazione, con il contrasto alle disuguaglianze, con la coesione sociale. La credibilità di un Paese, specie a livello internazionale, si conquista giorno dopo giorno. Il commissario agli Affari Economici dell’Unione europea Dombrovskis da Washington, dove si trova per il meeting del Fondo Monetario Internazionale, ha detto che se quest’anno il nostro Paese scenderà sotto il 3% nel rapporto deficit/Pil, potrà essere svincolato dalla procedura d’infrazione per eccesso di disavanzo. Parole che arrivano a poche ore da un’altra buona notizia per l’Italia: l’agenzia di rating Dbrs ha, infatti, alzato il rating da BBB ad A con trend stabile positivo. Siamo sulla strada giusta.
Avanti così.