il commento
Una spedizione umanitaria e anche politica
Flotilla: reportage di uno sbarco mancato. Attraversata nel Mediterraneo: umanitaria o politica? Un equivoco grande quanto una casa.
Flotilla: reportage di uno sbarco mancato. Attraversata nel Mediterraneo: umanitaria o politica? Un equivoco grande quanto una casa. L’operazione Flotilla, sin dall’inizio, è stata segnata da un’ambiguità di fondo: iniziativa umanitaria o atto politico? Un equivoco che ha alimentato tensioni sia in Italia sia a livello internazionale. L’opposizione più dura e ideologica ha insistito sulla valenza politica della missione, creando forte imbarazzo non solo nella maggioranza di governo, ma anche nell’area riformista e cattolica del centrosinistra. Il 1° ottobre, alle ore 19.25, a circa 70 miglia dalle coste israeliane, le navi di Tel Aviv hanno intercettato, abbordato e bloccato il convoglio della Flotilla. I circa 400 passeggeri e membri degli equipaggi – fra cui quattro parlamentari italiani dell’opposizione (PD, AVS e M5S) – sono stati arrestati. L’operazione si è svolta senza episodi di violenza: atteggiamento disciplinato da parte dei militari israeliani e resistenza non violenta, di impronta gandhiana, da parte degli attivisti. Per la maggior parte di loro è prevedibile il rimpatrio.
In Italia la Flotilla ha avuto un forte impatto mediatico e ha mobilitato l’opinione pubblica: migliaia di persone sono scese in piazza per manifestare solidarietà. Nel resto del mondo, invece, la vicenda ha ricevuto minore attenzione; i grandi media internazionali si concentrano soprattutto sul piano di pace promosso da Donald Trump per Israele e Hamas, quasi ignorato dal dibattito italiano. Il governo italiano ha mantenuto una linea equilibrata: il ministro della Difesa Guido Crosetto ha garantito un’attenta sorveglianza, facendo scortare le imbarcazioni da una fregata italiana; il ministro degli Esteri ha ricevuto dall’omologo israeliano la rassicurazione che agli attivisti «non sarà torto un capello». In Italia l’iniziativa ha diviso anche il fronte sindacale. La CGIL ha proclamato per domani 3 ottobre uno sciopero generale nazionale «in difesa della Flotilla e di Gaza», mentre la USB, già dal 26 settembre, ha organizzato accampamenti permanenti nelle piazze delle principali città e ha annunciato nuove mobilitazioni per il 4 ottobre. Questa competizione ricorda le grandi marce per la pace dei decenni passati, come quelle contro la guerra in Vietnam, e mostra un certo protagonismo dei sindacati sul terreno di cortei e raduni di piazza. La spedizione, di chiara impronta umanitaria, è nata dalla tragedia di Gaza: 45 imbarcazioni – di cui 15 italiane – con equipaggi e volontari provenienti da vari Paesi, la componente italiana la più numerosa. L’obiettivo era sfidare il blocco navale imposto da Israele - legittimo secondo le logiche di guerra, contestato dal punto di vista del diritto internazionale - per portare alimenti, medicinali e beni di prima necessità alla popolazione civile di Gaza, che vive in condizioni estreme: mancanza di cibo, acqua potabile, elettricità, cure mediche.
Carestia e malattie colpiscono soprattutto i bambini, decine di migliaia dei quali sopravvivono tra le macerie in cerca di pane. Una tragedia che, per molti osservatori, non trova precedenti nella storia recente. Come scriveva Gianni Rodari: «Sono cose da non fare mai, né di giorno né di notte, né per mare né per terra: per esempio, la guerra».
L’attuale escalation affonda le sue radici nel 7 ottobre 2022, quando Hamas e altri gruppi armati palestinesi attaccarono il territorio israeliano, compiendo un pogrom senza precedenti: 1.200 persone uccise tra civili e militari, circa 250 rapite e portate a Gaza. Particolarmente scioccante fu il massacro al Nova Festival, con 3.000 giovani presenti: 364 ragazzi furono uccisi, 44 rapiti; fra gli ostaggi figurano ancora 30 bambini. Sono stati documentati casi di stupri e violenze sessuali contro donne israeliane. Hamas presentò l’azione come risposta alle provocazioni israeliane nella Moschea al-Aqsa e nei campi profughi della Cisgiordania. Ma non è irrilevante che l’attacco avvenne proprio nel cinquantesimo anniversario della guerra arabo-israeliana del 1973, assumendo un forte valore simbolico. Vi era, inoltre, una ragione geopolitica di grande rilievo: l’assalto avvenne alla vigilia della firma di un accordo di normalizzazione tra Israele e Arabia Saudita, nel solco degli Accordi di Abramo. Quel colpo bloccò un processo che avrebbe potuto ridefinire gli equilibri del Medio Oriente. Oggi serpeggia, tra le organizzazioni sindacali e i manifestanti, il desiderio di riproporre le marce per la pace. Giusto esprimere solidarietà al popolo palestinese, che non va identificato con Hamas. Ma i sindacati e l’opinione pubblica avrebbero dovuto reagire con altrettanta forza alla carneficina del 7 ottobre 2022 e all’invasione russa dell’Ucraina, che ha causato oltre 400.000 morti tra i soldati di Kyiv e la deportazione in Russia di circa 20.000 bambini, a fronte di 65.000 vittime palestinesi, fra cui 20.000 bambini. Altrimenti si rischia di cadere in un pericoloso doppiopesismo morale e politico. Forse gli aiuti umanitari sarebbero più sicuri se affidati a canali realmente neutrali, come la Chiesa, piuttosto che alle autorità israeliane, percepite da molti come parte in causa. Viviamo in tempi malvagi, in cui – come ricordava Pablo Neruda – «Le guerre sono fatte da persone che si uccidono senza conoscersi, per gli interessi di persone che si conoscono ma non si uccidono».