L'analisi
Il pil italiano può salvarsi con l’«empowerment» delle donne del nostro Sud
Qui la media di partecipazione femminile al lavoro precipita al 39% contro il 67% del Nord e il 62% del Centro con percentuali di inattività al 42% contro la media italiana del 25%
In una calda giornata estiva faccio all’Intelligenza Artificiale una di quelle tipiche domande che un uomo si pone o perché troppo sensibile o quando ha una figlia. Il mio caso, a detta di amici e conoscenti, non è certamente il primo; sono il padre di Laura.
Cosa è l’empowerment femminile?
Pronta la risposta: «Il processo con cui le donne acquisiscono potere, autonomia e controllo».
Cerco di verificare da solo in Italia come stiamo messi ma sembra che siamo ancora lontani dalla meta, visto il tasso di occupazione femminile tra i più bassi nell’Unione Europea e quando lavorano le donne guadagnano circa il 20% in meno rispetto agli uomini. Eppure sul fronte dell’educazione universitaria le donne sembrano più performanti degli uomini raggiungendo livelli più alti in Europa.
Del resto chi non si ricorda a scuola o all’università la più brava che prendeva voti per noi maschietti impensabili? Dove abbiamo voluto, come con la legge sulle quote rosa nei consigli di amministrazione delle società quotate, il gap lo abbiamo colmato verso i Paesi più avanzati come Francia e Norvegia. Dove invece continuiamo ad essere sordi alle istanze femminili, la politica, registriamo scarsa presenza femminile in Parlamento e ancor di più nelle istituzioni locali; probabilmente anche su questo fronte non ci farebbe male accelerare. E anche gli sforzi imposti dal PNRR, almeno in termini di creazione di asili nido per agevolare l’empowerment femminile, sembrano non riuscire a colpire il bersaglio a causa dei ritardi prima e della incapacità di gestire le strutture dopo averle costruite.
Al Sud la situazione diviene addirittura drammatica. Qui la media di partecipazione femminile al lavoro precipita al 39% contro il 67% del Nord e il 62% del Centro con percentuali di inattività al 42% contro la media italiana del 25%. Sono di più le donne «inattive», che nemmeno lo cercano il lavoro e, purtuttavia, quelle che lavorano sono poco più della metà rispetto al Nord. Con buona pace della significatività degli indici di disoccupazione che ci vengono quotidianamente annunciati in diminuzione.
A questo punto la domanda sorge spontanea: perché siamo giunti a questo punto e, soprattutto, ci conviene perpetuare questo stato delle cose? Il «perché» va cercato nelle colpe delle teorie economiche moderne e nella pigrizia del maschio meridionale. Mi spiego. Il PIL (prodotto interno lordo) di una nazione misura il valore monetario dei beni e dei servizi che generano transazioni nel mercato. Questo significa che, mentre è conteggiato il lavoro retribuito, ne resta escluso quello familiare anche se certamente un valore economico e sociale importante lo ha. Proprio così; dal 2014 l’UE ha deciso addirittura di includere nel PIL anche la vendita di sex and drug (il rock and roll è ancora escluso), con grande sollievo dei politici di turno che videro i vari rapporti del PIL con il deficit e con il debito subito migliorare, ma non il lavoro in famiglia. La ragione addotta è che non è facile stimarlo; la casalinga sembra più abile a nascondersi delle escort e degli spacciatori, evidentemente. Qualcuno ha parlato giustamente delle donne come le «Zombie del PIL». Come se non bastasse anche il maschio italico, e meridionale in particolare, ci mette del suo dedicando alle faccende domestiche (crescita dei figli, cura degli stessi, educazione, pulizie, cura degli anziani, tempo libero, ecc) molto poco tempo, molto meno dei maschi dei popoli nordici. Addirittura è stato rilevato che dopo la nascita di un figlio mentre il tempo dedicato al lavoro della donna ovviamente precipita, quello dell’uomo addirittura cresce. Ma tutto ciò «cui prodest»? Siamo certi che il modo giusto per valutare lo stato di salute di una nazione sia quello a cui ci hanno abituati? Perché, se così non fosse, se il lavoro «invisibile» fosse anch’esso ricchezza, vorrebbe dire che ci stiamo colpevolmente sottovalutando; come il mitico Tafazzi!
Forse meglio sarebbe cambiare prospettiva. È stato calcolato che valorizzando il lavoro «invisibile» il PIL italiano potrebbe crescere del 36%. Significherebbe avere un PIL di circa 3.000 miliardi di euro quasi uguale al debito pubblico; altro che rapporto debito/PIL al 136% che ci impone piani di rientro draconiani. Tutte le politiche di austerità imposteci da una teoria macroeconomica cieca e arida perderebbero senso. Lo Stato Sociale, il Welfare, la Sanità ne trarrebbero certo giovamento. Non parliamo di tutte le diatribe relative ai LEP (livelli essenziali di assistenza) e alla famigerata autonomia differenziata.
Finalmente anche il Sud potrebbe avere la spinta necessaria per recuperare secoli di mancanza di investimenti a favore della crescita sana della famiglia, della donna e della società. E anche l’inverno demografico diventerebbe se non estate, almeno una primavera. E l’effetto indotto sul PIL sarebbe ulteriormente positivo. Del resto, perché non dovrebbe valere a livello macro ciò che vale nel nostro piccolo?
Pensiamo che i nostri padri o i nostri nonni avrebbero potuto costruire tutto ciò che hanno fatto, spesso certamente molto di più di quello che abbiamo fatto noi e riusciranno a fare i nostri figli, senza l’apporto economicamente concreto delle nostre mamme e nonne casalinghe? I mutui per comprare le case li hanno pagati anche le mogli con l’oscuro lavoro a casa, non solo i mariti in ufficio; i figli sono cresciuti e sono stati educati grazie alla silenziosa presenza delle madri in casa; gli anziani sono stati accuditi dalle madri, così come tutti i membri della famiglia quando si sono ammalati e tutti indistintamente hanno sempre trovato il piatto fumante a tavola. Ma se questo semplice switch fra invisibile e visibile non dovesse essere accettato dagli economisti che dettano il mainstream a cui acriticamente la politica deve piegarsi, almeno potremmo farlo noi con le politiche di sostegno alla famiglia.
Accompagnando e agevolando il processo di empowerment della donna in questa transizione dall’ombra alla luce, dall’evasione alla contribuzione, se ne gioverebbero tutti in un gioco a saldo zero senza più cittadine di serie A, dedite al lavoro retribuito, e di serie B, chiuse nelle case come «desperate housewives».
Al momento stiamo in una lenta transizione con le poche donne che lavorano ormai costrette ad essere multitasking come la Dea Kali con quattro e più braccia e quelle costrette in casa senza la dignità di un riconoscimento che tirano la carretta, tutte indistintamente, contribuendo ad accumulare ricchezza nascosta della nazione.
Dobbiamo giungere a considerare veramente la famiglia come un bene di valore sociale da tutelare, non come una risorsa scontata e senza costo, e consapevoli che il peso non può gravare solo sulle donne e soprattutto non solo sulle donne più sfortunate. L’empowerment della «risorsa donna» sarà un investimento per tutti e non una spesa a carico di pochi e, ovviamente, dei più poveri.