L'analisi
Washington le spara grosse, ma sui dazi anche Bruxelles potrebbe fare altrettanto
Tanto tuonò che piovve. Il proverbio impropriamente attribuito a Socrate si può ascrivere a Donald Trump per la guerra commerciale che sta conducendo contro l’Unione europea
Tanto tuonò che piovve. Il proverbio impropriamente attribuito a Socrate si può ascrivere a Donald Trump per la guerra commerciale che sta conducendo contro l’Unione europea. Non dazi al 10%, di per sé già alti — come avevano vaticinato alcuni premier europei — bensì dazi da capogiro al 30% a partire dal primo agosto. La lettera del presidente Trump è chiara e puntuale: per ora, nessuno sconto. E l’ha indirizzata direttamente alla presidente della Commissione europea, Ursula von der Leyen. A suo giudizio, l’Unione europea ha incassato un surplus commerciale di 236 miliardi di dollari nel solo anno di grazia 2024.
Da qui la decisione: tariffe del 10% sul 70% delle merci esportate dall’Ue negli Stati Uniti. Un avvertimento muscolare, lanciato nel solco di una politica dichiaratamente protezionista e nazionalistica. Nel tentativo di evitare un’escalation, Bruxelles ha optato per una linea morbida, adottando dazi simbolici e selettivi, in particolare su alcune multinazionali considerate «amiche» di Trump. Ha tolto dalla trattativa il digital tax e ha avvallato la volontà USA di uscire dall’accordo per la tassazione al 15% delle multinazionali. Come contropartita ha avuto un colpo basso, con la «lettera scarlatta» di Trump. Una politica daziaria Ue, diciamolo senza tema di smentita, più che favorevole per Washington. Inoltre, l’Europa avrebbe continuato ad acquistare gas liquido e armamenti dagli Stati Uniti, ma Trump queste «cortesie» non le apprezza: le considera atti dovuti, non meritevoli di riconoscimento.
Pechino, che ha capito presto il personaggio, ha risposto a muso duro, scegliendo però una strategia negoziale basata sul minimalismo daziario. Ora tocca all’Europa decidere la propria linea d’attacco: soft o hard. Il generale Agosto dovrà dirlo. La premier Meloni consiglia la prima, Macron la seconda. Von der Leyen ascolta e medita quale strada intraprendere. Tutto sommato, cerca la soluzione negoziale. Il cancelliere tedesco Merz, in linea con la Von der Leyen, punta a una trattativa tutta indirizzata a tutelare gli interessi tedeschi: farmaceutica, meccanica, auto e chimica. Deutschland über alles. L’ascesa al potere di Donald Trump rendeva scontato che nel mirino finisse l’Unione europea. La sua politica isolazionista e protezionista, unita a un brutto carattere e a un’evidente volubilità, non è congeniale all’atteggiamento di appeasement di Bruxelles. L’elevato debito pubblico americano di circa 36.000 miliardi di dollari, pari a circa 130% del PIL, ha trovato nell’arma dei dazi l’antidoto per tentare una riduzione forzata. Dopo decenni di politiche economiche, finanziarie e industriali sbagliate, Trump cerca oggi di invertire la rotta con una strategia commerciale aggressiva contro le esportazioni Ue che si aggirano a 530 miliardi.
I governi precedenti, ad esempio, avevano scelto la via della delocalizzazione, che ha portato con sé una devastante deindustrializzazione. Trump sta puntando sulla reindustrializzazione — già avviata da Joe Biden — ma con una contraddizione evidente: rimanda nei Paesi d’origine i migranti, salvo poi trovarsi senza manodopera per le industrie manifatturiere. Per Trump, l’Unione europea è sempre stata una sorta di «vampiro», che succhia il sangue del popolo americano. Sul piano militare e su quello commerciale, l’Europa ha beneficiato dell’American way of life. Durante la guerra fredda, l’espressione era ampiamente usata dalla propaganda per marcare la differenza tra gli stili di vita negli Stati Uniti e nell’Unione Sovietica. L’idea, allora molto radicata, era che chiunque, indipendentemente dal proprio punto di partenza, potesse migliorare la propria condizione attraverso impegno e merito.
Politicamente, ciò si traduceva in una fede nella democrazia liberale, nella crescita illimitata e nella superiorità del sistema statunitense. Quella cultura affascinava l’Europa, che ne ha tratto enormi vantaggi. Per inciso, senza il Piano Marshall non avremmo avuto la ricostruzione dopo il secondo conflitto mondiale. L’Europa occidentale protetta dall’ombrello del Patto Atlantico e dalla NATO, viveva tranquilla, delegando a «Zio Sam» il compito di tenere lontano prima l’Orso sovietico e poi quello russo. Questo le ha permesso, intanto, di stringere rapporti economici con Mosca, Pechino e Teheran: Paesi che, per un motivo o per l’altro, sono i nemici giurati di Washington. Non si può dimenticare nemmeno il programma della Nuova Frontiera di John F. Kennedy: un progetto ambizioso che investiva negli Stati Uniti ma guardava anche oltre, promuovendo una visione di progresso scientifico, civile e spaziale. Uno dei meriti di quella stagione fu l’idea di un’America disposta a fornire aiuti a livello globale, senza pretese di immediato ritorno. Con Trump 2.0, tutto questo è cambiato. L’Europa viene accusata di aver fatto politiche a spese del popolo americano. Con il «repubblicano irregolare», è stata messa con le spalle al muro: 5% di contributo obbligatorio alla NATO e 30% di dazi su numerosi prodotti strategici. Le lettere di Trump sono state spedite a mezzo mondo — tranne che a Mosca, per due motivi: per tentare un’alleanza che però non si è mai concretizzata (leggasi Ucraina), e perché lo scambio commerciale tra Stati Uniti e Russia è irrilevante. Alla fine, questa politica muscolare, con abbondanti dosi di bullismo geopolitico, ha prodotto risultati modesti: un accordicchio con la Cina, uno con il Vietnam, condito dalla promessa di costruire una Trump Tower a Ho Chi Minh City e un golf club ad Hanoi. Con Londra, la montagna ha partorito il topolino. Ecco allora i fuochi d’artificio dei dazi, degni della Piedigrotta napoletana: 30% contro l’Europa. In realtà, è la seconda ondata: la prima aveva già portato i dazi sulle auto al 25%, su acciaio e alluminio, e presto potrebbe toccare anche al rame, con tariffe fino al 50%.
Eppure, paradossalmente, i mercati europei hanno reagito con rialzi di Borsa. Nonostante i dazi, la guerra in Ucraina e una crescita economica prossima allo zero, molti capitali stanno attraversando l’Atlantico e si rifugiano in Europa. Un paradosso nel paradosso: l’America minaccia, ma l’Europa viene vista come un mercato regolato, stabile e protetto da regole certe, al riparo da colpi di mano e instabilità politica. In breve, l’economia americana non va bene: nel 2024 ha dimezzato la crescita e il dollaro si è indebolito notevolmente e altrettanto i titoli del Ministero del Tesoro. Il sogno di Trump è uno e uno solo: i singoli Stati andassero a Canossa, ossia a trattare con lui, ma alla luce dei i fatti i 27 paesi Ue sono uniti e compatti. Alla fine, Von der Leyen, di conserva con tutti gli Stati membri, si muoverà con i piedi di piombo, come già accaduto ai tempi dei dazi su auto, acciaio e metalli. Ma se Trump dovesse insistere con il 30%, l’Unione europea sarà costretta a reagire. Le contromisure scatteranno, e potrebbero includere anche il «bazooka»: lo strumento anti-coercizione, entrato in vigore nel 2023, pronto all’uso nella nuova guerra commerciale. Washington le spara grosse. Bruxelles, stavolta, potrebbe fare altrettanto.