il pensiero

L’eterno dolore di Gaza: nessuna terra è sicura per un popolo senza patria

Gianfranco Longo

Nel riportarvi notizie da Gaza constato come la guerra insorga senza dare nessun preavviso, seguendo una sua legge che travalica anche coloro impegnati ad amministrarla e a gestirla

Ho alcune considerazioni da farvi oggi. Sono sempre Tariq, ormai mi conoscete. Nel riportarvi notizie da Gaza constato come la guerra insorga senza dare nessun preavviso, seguendo una sua legge che travalica anche coloro impegnati ad amministrarla e a gestirla, facendone strategie, opportunità d’assalto e tattiche feroci per demolire il nemico. Il nemico, invece, lo abbiamo da ogni parte. Qui a Gaza ci sono quelli di Hamas e dall’altra parte quelli dell’Idf, gli Israeliani che vorrebbero buttarci tutti in Egitto. O in Giordania. O a mare, forse. Il trasferimento di noi Palestinesi, ora su un territorio, ora su un altro, è un vecchio mantra che accomuna l’Occidente e che ci perseguita materializzandosi come premessa di un ulteriore olocausto. I territori non sono delle no man’s land, in grado di accettare altre popolazioni al di là di quelle già su determinati territori stanziate da secoli, come lo sono gli Egiziani, o i Giordani, zone verso le quali ci vorrebbero distribuire e spargere.

Le forze sulla terra, tuttavia, si alternano; infine diventano analoghe, si riconoscono unite nell’occupare un medesimo spazio ed amministrarlo, e al tempo stesso iniziare compulsivamente a coordinare politiche ed economie insieme a popolazioni con una stessa lingua, ma con storie di tradizioni diverse, come fossimo uno stesso agglomerato informe cui offrire una definizione: forma dat esse rei. Solo che le persone non sono cose, oggetti, né entità fluttuanti su videogiochi, immagini in sostanza che possono essere interrotte, riprese, o addirittura cancellate. Le persone vanno ascoltate, le popolazioni vanno accolte nelle loro richieste di potersi autodeterminare su uno stesso territorio, che non sarà mai un altro, estraneo, straniero, lontano dal proprio luogo di origine, o anche confinante, ma pur sempre esterno. Altrove. Tutto ciò ebbe un nome: colonialismo.

Ciononostante, in tempo di guerra nessuno spazio è quello più sicuro. Sono tutti occasione di assalto e di vittoria, momentanea o duratura, ma certamente colonizzante.

È così che la terra, da essere il luogo dell’incontro, si trasforma in territorio e in contesa territoriale, divenendo un terreno di scontro che produce un campo di forze che si contendono quel luogo, facendone un suolo di conquista. Questo neo-colonialismo ha generato, per il momento, tentativi e premesse di spartizione, insieme ad una realtà molto concreta e visibile qui a Gaza: lo straccio dei palazzi ingrigiti nel loro agghiacciante ischeletrirsi; il loro sinistro scricchiolare, ondeggiando come bandiere, le ultime di una patria che non c’è più..., perché la patria palestinese avrebbe necessità di un luogo e di una terra, di un territorio e di una sovranità, cioè di uno Stato. Il popolo infatti già esiste. Qui, invece, ci sono macerie che fluttuano come strofinacci logori, rovine di città distrutte. Perdendo brandelli di cemento.

Che cadono in un fracasso terrificante. Un guaito di cristalli infranti, di suoni cupi, che un bambino non dovrebbe ascoltare mai, perché neppure la morte emette quei suoni. Lo fa solo la guerra che si presenta oltre la morte perché disconosce ogni forma di vita, e trapassa il suolo e il cielo. La guerra fende la luce di grigiore, di foschie, emanando scaglie leggere che aleggiano dovunque. Le vedo ogni giorno. Poi scompaiono per ripresentarsi quando una casa incurvata su di sé, lancia sibili minacciosi come un corpo agonizzante, che, ringhiando, si accascia con un tonfo cupo, eco di un ghigno che descrive come la vita sia passata a essere un debito che la morte riscuote.

La guerra langue tra lerce strade, tra baracche improvvisate..., la guerra gongola nell’osservare meste donne che si aggirano alla svelta come larve, alla ricerca di cibo..., e le squadra con furia insonne. Eppure, tutte loro sono madri nei cui confronti osare pietà, madri che quatte, rapidamente, torte, incurvate, si assicurano che i loro figli siano al riparo..., in una tana... Sono donne fattesi cenci grigi, madri che, fra timorosi bisbigli, si riversano in mezzo a cocci e pietrisco, tra calcestruzzo polverizzato per sudici cunicoli, per fogne intasate da cadaveri e da carogne imputridite, rese anche le fogne delle fosse comuni. E all’alba esangue, all’elevarsi più rancido del lezzo della guerra, quelle madri, esili, smunte, affilate dalla fame, si consolano per un’altra notte rosicchiata alla morte, senza aver dovuto annotare strazio ulteriore, senza singhiozzare tra fremiti di terrore, senza piangere un altro loro bambino, un figlio che è cresciuto, e che, ancora in braccio, o poco grandicello, cade, abbattuto dalla guerra, come fosse stato ogni figlio già segnato, al parto, d’essere nel mondo sprezzante al dolore, solo, e nuovamente, un aborto.

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