il pensiero
Italia un paese per vecchi. I partiti? Basterebbe tornare alle frattocchie
Il tema dell’età media sarebbe stato da tempo l’elemento da tenere in maggiore considerazione per sviluppare politiche apprezzabili, nel vero senso del suo significato
Il tema dell’invecchiamento affligge la nazione e la qualità delle scelte di governo della res publica. Mette in condizione il Paese di non progredire alla velocità e qualità necessarie. Un problema che incide sulla popolazione in termini demografici, tant’è che le proiezioni al 2050 prevedono gli abitanti al di sotto dei 55 milioni.
Tutto questo - anziani che crescono in progressione geometrica, tanto da essere proiettati verso la conquista della maggioranza relativa, e giovani che vanno via e, per quelli che rimangono, non propensi a fare figli - obbligherebbe la politica a rivedere prima di tutto se stessa. A rendersi conto, attraverso una naturale autocritica, quali siano stati gli errori commessi e a prendere le misure sulla sua inadeguatezza ad affrontare e risolvere un tale handicap, tanto pregiudicativo per la nazione.
Il tema dell’età media sarebbe stato da tempo l’elemento da tenere in maggiore considerazione per sviluppare politiche apprezzabili, nel vero senso del suo significato, per rinnovare in tal senso i partiti e le rappresentanze istituzionali. Ciò non per una qualche avversità verso l’anziano, che lo è sempre di meno in termini di efficienza psicofisica, bensì per favorire il ricambio generazionale che, nella elaborazione e nell’esercizio delle politiche pubbliche, è fondamentale per affrontare il futuro. Un futuro che possa essere esente dai difetti del passato e pensato in e per un mondo che cambia. Tantissimo con l’introduzione a regime della intelligenza artificiale.
Un investimento - quello di doverlo fare sulla nuova classe dirigente, soprattutto per generare un impegno di qualità elitaria nella politica - per assicurare lo sviluppo necessario al Paese, che vada di pari passo con le tecnologie, in una ottica europea e con una particolare attenzione nella tutela dei neurodiritti messi a dura prova dagli algoritmi, che si nascondono dietro i quotidiani «accetta», cui è condizionato ogni accesso al web.
Ebbene in una tale ottica, appaiono francamente insufficienti le iniziative che i partiti, tutti, mettono in campo per affrontare i problemi, noti e da venire, preoccupandosi oggi di cosa pensare per il domani.
Le tanto utili scuole di partito - non intendendo tra queste unicamente quella strutturale delle Frattocchie (che ebbi l’onore di frequentare) e l’Istituto Luigi Sturzo - sono state sostituite dagli apparati fiduciari dei dominanti, impegnati in una logica di autogenerazione. Un tale clima di self-generation ha prodotto e continua a produrre danni inenarrabili, a causa degli ostacoli che la stessa viene naturalmente a porre all’ingresso di nuove apprezzate linfe, vitali per generare il cambiamento, le conoscenze adeguate ai tempi e il concepimento di nuove strategie.
Questo limite è invero più facilmente rinvenibile nella sinistra, non già nei ruoli istituzionali ovvero di segreteria bensì nella troppo e unica dipendenza dai cosiddetti padri nobili, cui conseguono vuoti nella definizione delle strategie. Basta vedere i riferimenti che il centrosinistra espone nei talk show più accreditati, riconducibili alle personalità invitate dai conduttori più dinamici e seguiti. Quelli più interessanti ad essere ascoltati sono, infatti, due miei coetanei settantaquattrenni (Bersani e Bindi), un ottantacinquenne (Bertinotti) e un altro illustre con un anno in più (Prodi), tanto da dimostrare la completa inesistenza di «nipoti nobili» capaci di attrarre consenso e di esternare il vero senso critico-propositivo che deve essere proprio della politica.
Un requisito che di certo non può limitarsi, così come sta avvenendo da un po’ di tempo, unicamente all’inseguimento avverso di chi governa, ma che debba via via essere strumentale a manifestare soluzioni a vecchi e nuovi problemi, ma principalmente costruire un programma alternativo, sul quale pretendere poi il futuro consenso elettorale.
Sono troppe le disattenzioni che l’opposizione - che ha tantissimo da invidiare a quella di una volta - mostra nell’intento di curare e rinnovare la classe dirigente. Affronta i problemi con una vistosa ed eccepibile contraddizione con la sua recente storia (regionalismo differenziato, Lep e federalismo fiscale) e con una scarsa capacità elaborativa di progetti, di temi e di critiche. Su tutti, l’incuranza dimostrata nei confronti dell’occasione del secolo, la progettazione del Pnrr, e in rapporto all’avanzata degli algoritmi, con le “crudeltà” sociali che si porteranno dietro sul piano delle ricadute. Per non parlare dell’organizzazione istituzionale del territorio, ove sulle istanze del terzo mandato sta dimostrando pochezza, prescindendo che a pretenderla siano bravi «governatori» cinquantasettenni ovvero settantaseienni (rispettivamente, Zaia e De Luca) oppure a consentirla all’efficiente sessantacinquenne Emiliano.
Un siffatto tema, così come tanti altri, costituisce infatti l’apposizione di un limite al buon esito delle realizzazioni delle programmazioni politiche intraprese e alla continuità di un consenso popolare guadagnato sul fronte dei governi regionali. Ciò in relazione anche agli adempimenti collegati con il Pnrr da portarsi a termine per il 2026 e, in una ipotesi diversa dal Veneto, a dare continuità alla bonifica dei conti della sanità, puntando al superamento del limite imposto dai piani di rientro ancora in vigenza.
Il tutto, peraltro, produttivo di una fantastica ilarità se messo in relazione a permanenze in Parlamento di taluni vicine al mezzo secolo.