L'analisi

La rivoluzione di Toscani e quella «fabrica» di utopie e provocazioni

Pino Donghi

In questi giorni di lutto per la morte di Toscani, credo sia utile riflettere su almeno due aspetti che - per quanto sensibili o indifferenti si possa essere riguardo la figura umana del «fotografo di Benetton» - giustificano un intervallo di attenzione

Prima di incontrare quella che sarebbe stata, e continua ad essere, la mia professione di comunicatore-divulgatore della scienza, sono stato un junior-account presso un’agenzia di pubblicità: erano i primi anni ‘80 (per chi li ricorda, quelli della «Milano da bere», anni pubblicitari per eccellenza!) e il vezzo di infilare parole e etichette in inglese cominciava ad imporsi, tanto da trasformare anche una noiosa discussione in famiglia in un eccitante brain-storming. In quegli anni covava l’utopia realizzata di «Fabrica», il centro di ricerca sulla comunicazione fortemente voluto da Oliviero Toscani, lo spazio inaugurato nel 1994 a Catena di Villorba, in provincia di Treviso, e che nel nome rimandava, certo non casualmente, all’ambizione della «Factory» di Andy Warhol.

In questi giorni di lutto per la morte di Toscani, credo sia utile riflettere su almeno due aspetti che - per quanto sensibili o indifferenti si possa essere riguardo la figura umana del «fotografo di Benetton» - giustificano un intervallo di attenzione.

In quei miei primi anni da junior la pubblicità era ancora, prevalentemente, di e sul prodotto: se si voleva convincere il potenziale acquirente ci si concentrava sulle qualità e le novità che il prodotto garantiva o, almeno, prometteva. La domanda che annunciava ogni iniziale brainstorming recitava a partire dal verso di Arbasino: «Come facciamo a convincere la casalinga di Voghera?», quali attributi del nostro prodotto possono colpire l’altrimenti indifferente esistenza della nostra anonima massaia? Non erano tempi per il politicamente corretto!

Le cosiddette provocazioni di Oliviero Toscani rivoluzionarono la pubblicità. I maglioni, come le automobili, come i profumi, erano (lo sono ancora, di fatto) tutti uguali: con le sue fotografie pubblicitarie Toscani si disinteressava del prodotto per parlare direttamente al pubblico, e non solo a quello delle casalinghe. Se lo provocava era per risvegliarne l’interesse, per convocarlo e, senza necessariamente suggerire qualche esito specifico, per interrogarne le convinzioni. Il dato di partenza era che un maglione è un maglione, è fatto di tessuto, di taglio di colori (nel caso di quelli di Benetton, di moltissimi colori); le automobili erano già allora assemblate a partire da componenti - la scocca, i freni, il blocco luci , etc - prodotti indifferentemente per tutte le marche (escluso l’artigianato dei pezzi unici Ferrari e simili); per non parlare dei profumi… Con le foto di Toscani si comincia a vendere comunicazione: non un prodotto ma uno stile di vita. Al pubblico si dovevano raccontare storie - in parte aggiornando l’intuizione di Carosello - nelle quali eventualmente riconoscersi, la pubblicità parlava del suo destinatario, poco o nulla del prodotto: con il pretesto del tutto contingente dei maglioni, Toscani parlava a e di noi. Una prima rivoluzione. La seconda è che questa sia arrivata da una Fabbrica invece che da un Partito, da un’Università o da un Centro Ricerche, e non è un aspetto secondario.

In modo assolutamente autonomo e originale, «Fabrica» declina l’intuizione-utopia che era stata di Adriano Olivetti. Intorno a quella factory, al disegno delle cui mura provvede un grande architetto come Tadao Ando, promossa e finanziata da un gruppo industriale di respiro internazionale, si raccolgono artisti di ogni disciplina, registi, musicisti, scrittori, filosofi, e certo anche fotografi e giornalisti. C’è un’idea di società dietro il complesso dell’impresa, una relazione originale tra fabbrica e territorio e cultura.

Uno dei guasti del capitalismo finanziario, tra i non pochi di cui è responsabile, è di non appoggiarsi sulla materialità di un prodotto e di non riconoscersi in nessuna, specifica comunità. In questo modo è impossibile promuovere cultura. Un’impresa moderna quanto spericolata, non può pensare di redimersi agli occhi del cittadino utente sponsorizzando una mostra d’arte o un programma di eventi musicali, attività encomiabili ma che non risolvono la sua identità. Anche la declinazione della cosiddetta corporate social responsability, troppo spesso, somiglia ad un’imbiancatura di facciata. Una vera fabbrica è e dovrebbe essere anche fabbrica di cultura: aziendale, di prodotto, di processi innovativi, di relazioni tra gli addetti e pure di comunicazione. La cultura, nelle aziende, non può ridursi a microscopica voce di budget, un pegno da pagare così da pareggiare qualche difficile impatto ambientale. La cultura deve essere un’assunzione di responsabilità, di rinnovata consapevolezza del ruolo dell’azienda nel territorio, non per sostituirsi alle agenzie di formazione e di ricerca ma per integrarsi a vicenda, con mutua e felice fertilizzazione.

Un’utopia, forse, e una provocazione. Ma ricordando Oliviero Toscani, cos’altro?

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