L'analisi

L’autonomia differenziata e la dura lezione della Corte Costituzionale

Francesco Alicino

Sotto l’affare dell’Autonomia differenziata si celano diversi corresponsabili: presidenti di regione con pulsioni sovraniste; turbo ministeri more solito porcellum

Sotto l’affare dell’Autonomia differenziata si celano diversi corresponsabili: presidenti di regione con pulsioni sovraniste; turbo ministeri more solito porcellum; fautori di baratti politici alle prese con altre riforme quali premierato e separazione delle carriere dei magistrati; celebrati professori appositamente ingaggiati in improbabili comitati. Ora la loro signoria impallidisce di fronte alle 109 pagine della sentenza del 4 dicembre 2024 (n. 192) della Consulta che, non a caso, assume i toni di una dura lezione di diritto costituzionale. Lo è soprattutto per le sorti dell’Italia e del Sud, compresa la regione Puglia. Tanto più nell’era della globalizzazione, del processo di immigrazione, delle rivoluzioni gemelle digitali ed energetiche. In questo modo, i giudici rileggono e, per quello che possono, riportano a sistema l’art. 116 e tutto il Titolo V della Costituzione. La quale, ricordiamolo, fu sul punto maldestramente riformata nel 2001 da una maggioranza di centro-sinistra sotto la pressione della Lega Nord che, virilmente guidata dal condottiero in canottiera, non era ancora sedotta dal fascino del capitano dalle felpe cangianti e dal bestselling generale ammiratore della X a Flottiglia MAS.

Si spiegano così i moniti della Corte che, in sede di premesse alla decisione del 4 dicembre, sottolinea come la democrazia costituzionale accentui la compresenza di pluralismo e unità. Può essere sostenuta solo su un nucleo di valori condivisi. Spicca su tutti l’indivisibilità della Repubblica. Si fonda sull’unità di un popolo, senza che siano configurabili «popoli regionali» titolari di una porzione di sovranità. La quale, sul piano istituzionale, è attribuita al Parlamento e in nessun caso può essere riferita ai consigli regionali. L’autonomia è insomma lo strumento e non l’obiettivo dalla forma di Stato come disciplinata dalla Costituzione italiana. Le legge Calderoli del giugno 2024 ribalta invece le posizioni, anteponendo i mezzi ai fini. Lo fa assoggettando l’applicazione dell’art. 116 a valutazioni meramente partitiche solcate dalla «logica di potere con cui risolvere i conflitti tra diversi soggetti politici».

In questo modo, la bolla verbale del progetto calderoniano si sgonfia sotto la pressione di chirurgiche e puntuali affermazioni. Una sottolinea le necessità di non trasferire alle regioni la competenza di norme generali legate a materie intimamente connesse con l’identità statale. Lo sono l’istruzione e la formazione, per cui si impone un’uniforme disciplina senza territoriali differenze.

Lo stesso si dica per l’ambiente e il commercio con l’estero, la cui regolamentazione è in mano all’Unione europea (Ue). Per non parlare dell’energia, dei porti, degli aeroporti, delle grandi reti di trasporto e delle comunicazioni su Internet, parti di un sistema euro-nazionale e spesso direttamente finanziati dall’Ue. Per quanto poi concerne le altre materie toccate dall’art. 116 Cost., non è ammissibile un’impostazione astratta che, sorvolando sulle evidenze concrete, si disinteressi del principio di sussidiarietà. Lungi da legittimare un trasferimento di competenze riguardante l’intera materia, la Corte sottolinea la necessità di devolvere specifiche funzioni. E di farlo solo a seguito di un giudizio di adeguatezza, efficacia ed efficienza. Quello che non prevede la legge Calderoli, in cui si avalla una redistribuzione di competenze senza tenere conto dei parametri dell’equità, dell’economicità e del rispetto dell’equilibrio di bilancio.

Considerazioni, queste, che si riflettono sull’annosa questione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep), i quali non possono essere raggirati con trucchi da azzeccagarbugli: sono materia viva per il Parlamento, chiamato a comporre la complessità del pluralismo. Lo deve fare su un presupposto, secondo cui le regioni devono essere messe sulla stessa linea di partenza, in modo da garantire su tutto il territorio nazionale un ragionevole godimento dei diritti civili e sociali. Tanto più in un contesto di risorse scarse, che chiama il regionalismo italiano a una maggiore effettività dei princìpi di eguaglianza, leale collaborazione e di proficua e solidale cooperazione. Come ha peraltro affermato due giorni dopo (6 dicembre 2024) la stessa Corte costituzionale con riferimento al sistema sanitario nazionale e al diritto alla salute, che chiama «in causa imprescindibili esigenze di tutela anche delle fasce più deboli della popolazione, non in grado di accedere alla spesa sostenuta direttamente dal cittadino, cosiddetta out of pocket» (sentenza 195/2024). Tutto ciò ridimensiona la distinzione tra materie-Lep e materie non-Lep. Nella legge calderoniana, le competenze su queste ultime possono essere devolute alle regioni senza fissare i livelli essenziali delle prestazioni. La Corte costituzionale ribatte che, vero sul piano teorico, un siffatto trasferimento è comunque subordinato alla dimostrazione di non negativa incidenza sulla tutela dei diritti delle persone: di tutte le persone, indipendentemente dalla regione di appartenenza o di residenza.

Resta che, nonostante la sentenza della Consulta, il patto politico tra partiti di maggioranza non sembra per nulla scalfito. Lo dimostra il commento del Presidente della Commissione affari costituzionali del Senato (dove è stata partorita la legge Calderoli), che invita il Ministro a proseguire nell’applicazione della legge sull’autonomia. Ma lo dimostra anche l’intenzione del Governo a prorogare il Comitato Cassese sui Lep oltre la scadenza del 31 dicembre. Di qui la reazione del Presidente dei Senatori del Partito Democratico, Francesco Boccia, il quale denuncia l’atteggiamento del Governo «intento a fare intese con le Regioni come se non ci fosse stata la pronuncia della Corte costituzionale». Qualcuno dovrebbe ricordare all’On. Boccia che, nel settembre 2019, in veste di Ministro del secondo Governo Conte, fu proprio lui a riaprire l’indegno calderone dell’art. 116 Cost., dichiarando di non voler «perdere tempo: l’Autonomia differenziata si farà entro la legislatura» affermò senza indugi. Il piano non gli riuscì a causa del Covid-19 che, peraltro, ha accentuato i nefasti effetti di un servizio sanitario nazionale già ora altamente differenziato. Un altro stimolo per tornare sui propri passi.

Non così per gli iniziati dell’autonomismo italico tra cui, oltre all’autore del fu porcellum, eccelle l’astuto Presidente del Veneto, aspirante governatore della neo Repubblica di Venezia. Senza alcun ritegno, entrambi dichiarano che «la Corte costituzionale ha confermato la legittimità della legge sull’autonomia differenziata, sancendo ancora una volta che il nostro percorso è in linea con la Costituzione. È una conferma importante e rappresenta un passaggio storico per il Veneto e per tutto il Paese». Fanno venire in mente gli stregoni del rituale locutorio al servizio di un potere o, se volete, dei pollai televisivi dove, come si è detto in altra sede, non mancano assidui falsari e atrofici cantori.

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