L'opinione

La consulta è stata chiara: l’autonomia si può fare ma la riforma va rivista

Gaetano Quagliariello

Resta in pregiudicato la sorte dei due referendum per i quali gli oppositori hanno raccolto valanghe di firme

Non è facile comprendere per dei profani come mai la sentenza della Corte Costituzionale sul regionalismo differenziato sia stata accolta - almeno in apparenza - con grande favore da entrambi i campi contrapposti. Roberto Calderoli, il padre della riforma, ha addirittura parlato di «sentenza storica». Dall’altra parte, gli si è, però, fatto notare che la sua creatura è stata colpita in ben sette punti vitali e, per questo, se non morta ne sarebbe uscita gravemente ferita.

In realtà, degli indizi, per scoprire l’arcano, ci sono stati forniti, ma essi necessitano di una premessa d’ordine generale.

Al termine della Camera di Consiglio, per prassi, la Corte Costituzionale emette un semplice comunicato stampa. E una tale fonte, per quanto ampia e dettagliata, non è una sentenza. Se si considera che, quando è in discussione la Legge Fondamentale, persino la punteggiatura può assumere un’importanza decisiva, si comprenderà perché in questa fase è bene mantenere un certo grado di precauzione.

Ciò premesso, si può affermare con buona approssimazione che la Corte abbia rigettato la tesi estrema - che pure era stata paventata - che avrebbe voluto l’Autonomia differenziata di per sé incostituzionale per un insanabile contrasto tra l’art.116.3 e i principi fondamentali della Carta. Da qui, probabilmente, la soddisfazione di Calderoli e compagni.

Questo riconoscimento indiretto, però, non ha impedito alla Corte di scardinare alcune della modalità attraverso le quali la riforma avrebbe voluta porre in atto l’autonomia a geometria variabile. Come dire: l’Autonomia differenziata si può fare, ma non come è stato previsto dal testo governativo. E ciò spiega le espressioni di giubilo dei suoi detrattori.

A me pare che dall’analisi filologica del comunicato emergano due criticità maggiori, ognuna delle quali può poi essere declinata in un insieme di problematiche ulteriori. La prima, di carattere ordinamentale, riguarda il rapporto tra centro e periferia. La Corte ha nei fatti detto che non si possono trasferire blocchi di materie, perché tale devoluzione non risulterebbe coerente con la nostra forma di Stato. Dal criterio delle «materie», dunque, si dovrà passare a quello delle «funzioni». La richiesta di autonomia, per questo, cessa anche in ipotesi di essere la strada attraverso la quale una regione prova a recidere i suoi vincoli di solidarietà con lo Stato centrale.

L’altra contestazione «maggiore» è, invece, di natura metodologica. Riguarda l’iter della riforma e in particolare il rapporto tra Governo e Parlamento. La Corte chiede che non si proceda con d.p.c.m. o con deleghe generiche. Intende, con ciò, preservare la possibilità del Parlamento d’intervenire e di emendare. E c’è da sperare che, questa volta, a differenza di quanto accaduto anche in un passato recente, il Parlamento sappia sfruttare l’assist ricevuto.

La riforma, dunque, avrà certamente bisogno di una revisione. Nel frattempo, resta in pregiudicato la sorte dei due referendum sui quali i suoi oppositori hanno raccolto valanghe di firme. Per comprenderne la sorte, va considerato che su di essi, una volta emessa la sentenza, in ultima istanza dovrà esprimersi la Corte di cassazione. Quel che si può anticipare, dunque, è solo un’impressione: gli aspetti sui quali si imperniano i quesiti referendari sono quelli maggiormente colpiti dalla Corte, o direttamente o per via interpretativa. È perciò probabile che i quesiti vengano ritenuti superati e che su di essi non sia chiamato ad esprimersi il corpo elettorale. Il che, per quanto paradossale possa apparire, potrebbe fare più piacere ad alcuni settori della maggioranza che non ai promotori.

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