La riflessione
Le «relazioni riservate» della consigliera De Simone: la Regione viola la legge sulla trasparenza
L’amministrativista: inammissibile negare l’accesso civico quando si parla di risorse pubbliche
Il rifiuto opposto dall’ufficio di gabinetto della presidenza della Regione al cronista della «Gazzetta» che, nell’esercizio della sua professione, ha presentato un’istanza di accesso ad alcuni atti regionali, lascia sconcertati e appare indice di un modo quanto mai singolare di concepire la gestione della res publica.
Prima di formulare alcune sintetiche osservazioni sul censurabile comportamento dei vertici burocratici dell’ente, appare opportuno riepilogare l’accaduto. Il presidente della Regione ha ritenuto di nominare una ex parlamentare del suo schieramento quale proprio consigliere nella materia delle problematiche delle «politiche di genere». A tal fine, sin dal 12 gennaio 2021, veniva stipulato un contratto tra la Regione e la suddetta, che prevedeva un compenso di 65.000 euro annui per tutta la durata della legislatura (vale a dire per circa quattro anni e mezzo).
Poiché un contratto per essere tale (ce lo insegnano sui banchi dell’università al primo anno) deve prevedere dapprima una prestazione (in questo caso un’attività professionale concreta e dimostrabile) e, soltanto in seguito, una controprestazione (nel nostro caso il pagamento), è di tutta evidenza che la presidenza della Regione, prima di chiedere agli uffici finanziari della Regione stessa di emettere il relativo mandato di pagamento, dovrebbe prima avere acquisito la prova documentale dell’avvenuta esecuzione della prestazione professionale. Soltanto in tal modo si giustificherebbe l’esborso di denaro pubblico in maniera corretta e legittima.
Il giornalista ha chiesto alla presidenza della Regione copia del contratto stipulato con la consigliera in questione e copia delle relazioni, munite di data certa, che la medesima avrebbe dovuto avere presumibilmente e formalmente consegnato agli uffici regionali nell’arco di questi tre anni di attività. L’istanza era formulata ai sensi del cosiddetto «accesso civico generalizzato», che costituisce oltretutto diretto recepimento di un principio di derivazione Usa noto con l’acronimo Foia (vale a dire Freedom of Information Act).
Sta di fatto che del tutto implausibilmente l’ufficio di gabinetto della presidenza ha negato il rilascio delle copie delle relazioni richieste, consegnando unicamente la copia del contratto, sulla base di due inconsistenti motivazioni: 1) perché l’articolo 6 del contratto non lo consentirebbe; 2) perché le suddette relazioni avrebbero (sic!) «carattere di rigorosa riservatezza, configurandosi l’attività della consigliera quale supporto ed approfondimento all’organo politico».
L’infondatezza delle argomentazioni regionali appare di solare evidenza, poiché - per un verso - il diritto di accesso è garantito dalla legge e non può certo essere aggirato da una clausola di un contratto che, in quanto semplice atto di gestione, non può ovviamente sterilizzare una norma di legge (fonte di rango superiore che, per di più, è considerata diretta derivazione del principio di trasparenza di cui all’art. 97 della Costituzione) e perché - per altro verso - la clausola di riservatezza prevista all’articolo 6 del contratto, di cui parla la nota dell’ufficio di gabinetto, prevede l’obbligo della riservatezza soltanto a carico della consigliera, non certo a carico della Regione: basta leggerla. A tanto si aggiunga l’ultimo capoverso della nota dell’ufficio, in cui questo definisce le relazioni (ammesso che esistano) della consigliera come atti «aventi carattere di rigorosa riservatezza» in quanto «supporto e approfondimento all’Organo politico».
Due secche osservazioni a tal proposito. Innanzitutto, non si capisce per quali ragioni una valutazione sulle politiche di genere o la riforma del terzo settore o le iniziative per il rientro in Puglia (questo l’oggetto del contratto) dovrebbero rivestire carattere di rigorosa riservatezza e, in secondo luogo, i casi previsti dalla legge per negare l’accesso agli atti sono, essi sì, rigorosi, ma non riguardano il caso che ci occupano. Sicché, non v’è spazio per le pretestuose scusanti addotte dall’ufficio di gabinetto.
Oltretutto, anche l’Autorità Anticorruzione ha ribadito che, per negare l’accesso, una amministrazione «non può limitarsi a prefigurare il rischio di un pregiudizio in via generica e astratta, ma dovrà: a) indicare chiaramente quale - tra gli interessi elencati all’art. 5 bis, co. 1 e 2 - viene pregiudicato; b) valutare se il pregiudizio (concreto) prefigurato dipende direttamente dalla divulgazione dell’informazione richiesta; c) valutare se il pregiudizio conseguente alla divulgazione è un evento altamente probabile, e non soltanto possibile». Approfondimento che, appare evidente, nel caso di specie la Regione risulta avere totalmente omesso.
Un’ultima riflessione. Quand’anche fossero ritenute (anche se non si riesce a capire come) infondate le tesi innanzi esposte, per elementari ragioni di rispetto dei cittadini e, probabilmente, di altrettanto elementari principi di contabilità pubblica, si dovrebbe sempre tenere presente che quando si tirano fuori risorse pubbliche non ci dovrebbe essere riservatezza che tenga, poiché si tratta di denaro dei cittadini, i quali hanno sempre diritto di sapere come vengono spesi (quando non sperperati) i loro soldi. E, pertanto, la presidenza della Regione avrebbe il dovere, etico prima ancora che giuridico, di spiegare ai pugliesi dove e come sono stati spesi i loro denari. Anche, e forse soprattutto, in questo caso.