La riflessione
Da Suviana a Marcinelle: la tragica scia delle epopee di morte
La tragedia dell’esplosione in una delle due centrali da cui dipende il bacino del lago di Suviana ripropone scenari atroci, sullo sfondo dei quali si consumano disperate epopee di morte
Cantavano i New Trolls in Una miniera: «Le mani, la fronte / hanno il sudore / di chi muore / negli occhi, nel cuore, / c’è un vuoto grande / più del mare, / ritorna alla mente / il viso caro / di chi spera /questa sera /come tante /in un ritorno». Troppe volte, invece, quel ritorno è negato da crolli, da cedimenti o peggio dall’imprevisto e dall’incuria, che spesso diventa oggetto di inchieste penali.
La tragedia dell’esplosione in una delle due centrali da cui dipende il bacino del lago di Suviana ripropone scenari atroci, sullo sfondo dei quali si consumano disperate epopee di morte. Spesso da ricondurre a quelle degli impianti estrattivi. L’8 agosto prossimo ricorreranno 68 anni da quando uno dei carrelli si bloccò nel montacarichi del pozzo del Bois du Cazier, a Marcinelle. Successivamente, una discrepanza fra i manovratori di superficie e quelli del sottosuolo provocò la rottura di un condotto di olio sotto pressione e di alcuni cavi elettrici. Risultato: una deflagrazione ed un incendio. Perirono 262 minatori, di cui 136 italiani. «Musi neri», come in Belgio chiamavano i minatori. Confinati in baracche già destinate ai prigionieri sovietici dei nazisti e subito dopo agli stessi tedeschi sconfitti. L’ultimo dei 13 superstiti riportati fuori vivi dalla miniera è morto nel 2007.
A Mount Kembla, in Australia, il 31 luglio 1902, si verificò il peggiore disastro dell’industria mineraria di quel continente. Una scintilla accidentale diede fuoco ad una sacca di gas e l’esplosione che seguì uccise 96 persone. Non solo adulti, anche bambini, impiegati in quel malsano lavoro. Eppure William Rogers, direttore della miniera, aveva dichiarato che «non esisteva nel modo più assoluto pericolo di gas». Il quotidiano Illawarra Mercury riportò che «mai prima di allora era stata rilevata la presenza di gas nel miniera». Il Sidney Mornig Herald andò oltre: «Era una delle miniere meglio ventilate dello Stato».
A Springhill, in Canada, si registrano tre grossi eventi luttuosi. Il 21 febbraio 1891 divampò un incendio negli impianti di carbone Numero 1 e 2. 125 morti e dozzine di feriti. Il 1º novembre 1956 uno scoppio nell’impianto Numero 4 provocò 39 morti. 88 furono salvati. Il 23 ottobre 1958 fu la volta di un bump, come sono denominati i terremoti sotterranei. I 75 sopravvissuti vennero riportati in superficie il giorno dopo.
Il 26 aprile 1946 vi fu l’esplosione di Benxihu, in Cina, una miniera di carbone, con la morte di 1.549 persone. Quel Paese conserva il più alto tasso di vittime nel settore. Fra il gennaio del 2001 e l’ottobre del 2004 sono avvenuti 188 incidenti, con un numero di perdite umane superiore alle 10 unità. Soltanto nel 2006 4.749 minatori sono deceduti in migliaia di esplosioni, allagamenti ed altre calamità.
Nel 1924, un giovane dottore scozzese fu nominato Ispettore Medico per le Miniere Britanniche. Si chiamava Archibald Jerome Cronin. Studiò gli effetti devastanti sull’organismo dell’inalazione di polveri di ferro nelle miniere della Cumbria. Ma Cronin aveva anche un’altra vocazione, oltre quella sanitaria: la narrativa. Così da quelle esperienze trasse, La cittadella.
Quest’ultimo doveva diventare un caso che travalicò i confini letterari. Correva il 1964 e Anton Giulio Majano, all’epoca popolarissimo regista, traspose La cittadella in uno sceneggiato a puntate per la Rai irripetibile dei programmi in bianco e nero. E fu leggenda. L’Italia si bloccò in lacrime a contemplare l’ascesa e la caduta del dottor Manson interpretato da un Alberto Lupo in stato di grazia. Con lui, Annamaria Guarnieri nella parte di Cristina, comprensiva e tenera consorte, ripagata da un adulterio e poi dalla morte. Il mélo dello sceneggiato, comunque, non cancellò lo sfondo di critica sociale del testo di Cronin. Tanto più che gli esterni furono girati a Palombara Sabina, zona effettivamente mineraria. Alberto Lupo ne fu talmente segnato da venire fermato per strada per consigli medici.
Il primo a preconizzare l’esistenza di città sotterranee fu Jules Verne con il romanzo Le Indie Nere, del 1877. Un’enorme miniera scozzese abbandonata che dà il titolo al libro viene riportata a nuova vita dalla scoperta di un giacimento carbonifero. I minatori viaggiano a bordo di vagoni non più pericolosi e rudimentali come quelli cui erano avvezzi, ma comodi e veloci quanto nella realtà lo saranno le carrozze delle metropolitane odierne.
L’ottimismo tipicamente ottocentesco di Verne escludeva orrori come quello di Suviana, dove i sub cercano i dispersi.