L'analisi
Da Spinelli al Pnrr è tempo di armonizzare industria e territorio
Siamo, infatti, nel momento chiave della lunga vicenda della politica industriale europea, che attorno ai suoi due cardini - «doppia transizione» e «autonomia strategica» - ha definito dal 2020 in poi, strategie, finanziamenti, regolamenti, esenzioni, alleanze tra attori pubblici e privati
«La politica industriale deve incastrarsi con la politica regionale», si leggeva così, all’inizio degli anni 70, nel «Memorandum Colonna», l’atto con cui la Commissione Europea avviava la sua azione di politica industriale. E questa relazione di strettissima connessione tra le due azioni era confermata solo due anni dopo, quando Altiero Spinelli, succeduto a Guido Colonna di Paliano come Commissario all’Industria, precisava che «una politica regionale efficace ha bisogno di larghe risorse della Comunità (…) da usare in partenariato con gli organismi nazionali e regionali per lo sviluppo di infrastrutture e anche di industrie - sia private, sia pubbliche - con l’obiettivo di promuovere il flusso di investimenti produttivi verso le regioni che ne hanno maggior bisogno».
Questo «vincolo» tra politica industriale e dimensione regionale così chiaramente indicato dai due commissari italiani all’industria in quel primo avvio degli anni Settanta, non potrebbe essere di maggiore attualità. Siamo, infatti, nel momento chiave della lunga vicenda della politica industriale europea, che attorno ai suoi due cardini - «doppia transizione» e «autonomia strategica» - ha definito dal 2020 in poi, strategie, finanziamenti, regolamenti, esenzioni, alleanze tra attori pubblici e privati.
Con il risultato di una Commissione che è vero e proprio pivot di un «campo industriale» europeo mai così battuto. Basta scorrere la stampa specializzata per capirlo. Non c’è giorno in cui non siano riportate notizie di investimenti in gigafactory destinate alla produzione di batterie (come, da ultimo, quella della start-up svedese Northvolt nel nord della Germania) o di semiconduttori (come quella annunciata dalla Taiwanese TSMC, il più grande produttore mondiale, a Dresda, sempre in Germania); di progetti di estrazione di materie prime «critiche» per la «doppia transizione» (come quelle di litio avviate dalla società francese Imerys in Cornovaglia e nella Francia centrale); oppure di iniziative normative dirette a rendere il tessuto industriale europeo più competitivo (come il Net Zero Industry Act ed il Critical Raw Materials Act).
In questo contesto in piena evoluzione, tornano così di attualità le riflessioni e le preoccupazioni che muovevano Colonna di Paliano e Spinelli: oggi come allora senza una precisa attenzione alle implicazioni territoriali dei nuovi investimenti, le ricadute in termini di divari regionali sono evidenti; oggi come allora politica industriale e politica territoriale debbono andare insieme. E che sia un «incastro» attualissimo lo dimostra l’esperienza degli Stati Uniti, che in questo revival della politica industriale stanno giocando un ruolo da protagonisti con iniziative come il Chips Act e l’Inflation Reduction Act, in cui è attribuita specifica attenzione ad investimenti «lontani» dai tradizionali centri di innovazione, così da distribuire crescita e conoscenza sull’intero territorio statunitense. Come ha detto recentemente il Presidente Biden: «Non lasciamo nessuno indietro, investiamo in tutta l’America, nell’entroterra e da costa a costa».
D’altra parte, è un tema ben chiaro alla stessa Europa. Basti pensare al Pnrr che ha al proprio «centro» il valore della coesione e che richiama esplicitamente i processi di industrializzazione e di reindustrializzazione e all’attenzione con cui la Commissione segue l’innovation divide tra le diverse regioni europee, uno dei punti di maggiore preoccupazione di questi anni.
Passando a temi più concreti, su questa strada che inevitabilmente tocca il nostro Mezzogiorno, già oggi ci sono esempi di come tenere insieme Europa, industria e riequilibrio territoriale: è il caso dello stabilimento della Faam a Teverola, che diverrà una gigafactory per produrre batterie al litio nell’ambito del programma IPCEI; di STMicroelectronics, che, grazie alle risorse del Pnrr e alle possibilità del Chips Act, sta innovando la propria capacità di produrre microprocessori di ultima generazione a Catania; dell’Enel, che con importanti risorse europee, sta terminando a Catania uno stabilimento europeo di pannelli fotovoltaici di ultima generazione che, già nel 2024, sarà il più grande d’Europa.
Esempi chiari di come questo rilancio della politica industriale europea possa aprire possibilità molto concrete per il Mezzogiorno. La strada per uno «sviluppo armonioso» del nostro territorio passa quindi da punti ben precisi: assicurarsi che il 40% delle risorse del Pnrr arrivino effettivamente all’economia meridionale; verificare e monitorare l’attuazione dei progetti infrastrutturali; definire una strategia industriale per il Sud capace di innestarsi in quella europea; utilizzare al meglio tutti gli strumenti a disposizione - a partire dai contratti di sviluppo, funzionali ad attrarre verso il Sud del Paese le imprese innovative con vocazione green e digitale; sostenere lo sviluppo di un mercato del capitale di rischio efficiente, che sia capace di trasformare in startup le idee che nascono dal mondo della ricerca e dell’Università, con specifica attenzione agli Ecosistemi dell’innovazione finanziati dal Pnrr al Sud.
Se sono queste alcune delle «cose da fare», c’è un punto da avere ben chiaro: non c’è tempo da perdere. Sia a livello globale, per gli incentivi messi a diposizione dalla «Bidenomics», sia a livello europeo, per il concorrere di Pnrr, Fondi di coesione e di un’applicazione della normativa in materia di aiuti di Stato favorevole agli investimenti «green», siamo in una fase di accelerazione negli investimenti strategici per le industrie del futuro. In parallelo - sotterranea ma durissima, come testimoniano le eco dei negoziati tra amministrazioni e industrie - è in corso una «partita» territoriale per attirarli. Non si può restare a guardare.