Mediterranea/mente

Il fenomeno di massa delle vacanze estive

Alessandro Vanoli

E spesso, per quelle città che avevano avevano già un centro urbano più o meno antico, come Rimini, oppure Cervia, si aggiunse una strada che correva diritta verso il mare collegando i due mondi: quello della tradizione e quello delle nuove abitudini che stavano nascendo

Non accadde tutto d’un colpo. Ci voleva innanzi tutto che una fascia un po’ più grande di popolazione, che non fossero nobili, banchieri, artisti o intellettuali, e potessero perlomeno pensarle le ferie. Questo primo passo aveva avuto avvisaglie già nell’Ottocento; a cominciare da un’innovazione a dir poco vertiginosa: in Inghilterra, pare nel 1871, quando venne approvato il “Bank Holiday Act”, che garantiva quattro giorni di ferie pagate ai dipendenti delle banche d’Inghilterra, Galles e Irlanda. Una cosa da poco all’inizio, ma un primo fondamentale passo.

Poi sarebbe venuta la Francia. Ma parecchio dopo, quando nel 1925 si cominciò a pensare alle ferie per tutti i lavoratori. Che poi la legge sarebbe passata solo nel 1936: con una certa enfasi Lèo Lagrange, primo segretario di Stato al «tempo libero», proclamò quello l’«Anno primo della felicità»: una felicità fatta di quindici giorni estivi pagati, con tanto di biglietto del treno popolare già pagato… in fondo per quei tempi non era affatto poco.

Anche in Italia era stato sancito il diritto al riposo, era il 1927. Ma era ancora troppo presto. In Europa e nel mondo venne la guerra e portò con sé ben altre tragiche priorità. Quando tutto finì però, con un mondo ed intere società da ricostruire, i tempi erano maturi anche per simili diritti.

Era ancora il 1948, e in Italia la Costituzione repubblicana sanciva il concetto di «vacanza obbligatoria»: «Il lavoratore ha diritto a ferie annuali retribuite e non può rinunziarvi» (art. 36). Che poi, oltre a questo, c’era già da tempo una crescente attenzione alla salute pubblica, quella che in Italia, ad esempio, aveva spinto già il regime fascista a promuovere l’idea della vacanza popolare, dando un grande impulso alle colonie marine, gestite dall’Opera nazionale maternità e infanzia, allo scopo di irrobustire la gioventù fascista con attività fisiche e ricreative.

E questa attenzione alla salute andava di pari passo con un nuovo senso del corpo e un’idea di libertà che ormai dominava sempre di più l’esperienza estiva. Dopo l’inizio del Novecento, era diventato sempre più chiaro che bagnarsi a lungo non fosse un problema per la salute.

E farlo d’estate obbligava per giunta a un certo grado di svestizione. Questa fu sicuramente una delle cose più innovative e dirompenti che i mesi estivi potessero regalare. C’era davvero qualcosa di rivoluzionario nella possibilità di mostrare in modo sempre più disinibito il proprio corpo: la spiaggia diventava una sorta di nuovo luogo di educazione sociale dove si imparava a interagire e a mostrarsi.

Inutile dire che il senso liberatorio della svestizione favoriva a sua volta la seduzione, e la vacanza estiva cominciò ad essere percepita anche come qualcosa di liberatorio, un momento di eccessi e di possibilità che l’inverno dei normali ritmi lavorativi non permetteva. Era vero per le élites, sarebbe diventato ancora più vero per tutti coloro che dopo la metà del secolo cominciarono a poter permettersi lo stesso tipo d’esperienza.

Alla fine della Seconda Guerra mondiale tutto era pronto: una ricchezza ampiamente circolante, l’accesso di nuovi strati sociali all’automobile che sarebbe diventato il vero e proprio fulcro della società del benessere, e su tutto questo la diffusione massiccia di una cultura di mercato che diffondeva nuove abitudini, nuovi costumi e nuovi desideri. Una nuova massa di vacanzieri cominciò ad affluire verso le tante città costiere che erano sorte nei decenni precedenti per il turismo di élite. E tutto cominciò a trasformarsi inesorabilmente.

Una trasformazione reale concreta, che investì molte delle città del turismo che si erano sviluppate già dal secolo precedente ad uso della ricca borghesia: Rimini, Livorno, Cesenatico, Viareggio, Tirrenia e tanti altri. E spesso, per quelle città che avevano avevano già un centro urbano più o meno antico, come Rimini, oppure Cervia, si aggiunse una strada che correva diritta verso il mare collegando i due mondi: quello della tradizione e quello delle nuove abitudini che stavano nascendo.

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