L'analisi
Con la guerra in Ucraina vola l’inflazione in Italia, e a pagare sono i più poveri
In assenza di meccanismi di indicizzazione delle retribuzioni monetarie ai prezzi, come quelli vigenti negli anni Settanta, il 12.4% di incremento su base annua del livello generale dei prezzi implica una consistente riduzione del potere d’acquisto delle famiglie
L’inflazione, in Europa e in Italia, ha raggiunto livelli allarmanti e temporaneamente rallenta. È comunque il valore più alto degli ultimi quarant’anni. In assenza di meccanismi di indicizzazione delle retribuzioni monetarie ai prezzi, come quelli vigenti negli anni Settanta, il 12.4% di incremento su base annua del livello generale dei prezzi implica una consistente riduzione del potere d’acquisto delle famiglie e comporta crescenti difficoltà, per le imprese, nel chiudere i bilanci almeno in pareggio.
L’impatto della povertà energetica, al momento, è ancora attenuato dal fatto che le famiglie italiane hanno accantonato risparmi nel periodo del lockdown. Ma lo scenario più verosimile è di ulteriore aumento dei prezzi.
L’inflazione statunitense è una storia a parte, dal momento che, a differenza di quella europea e italiana, dipende da una dinamica sostenuta della domanda interna. Per contro, l’inflazione europea e italiana è fondamentalmente causata dalla guerra in Ucraina, sia come effetto delle contromisure russe (in particolare, la restrizione dell’offerta di gas), sia in conseguenza della perdita di produzione di materie prime alimentari: in primo luogo, il grano.
L’aumento dei prezzi, nel nostro Paese, comincia a manifestarsi dal 2021. Questa dinamica, che segna la fine della lunga stagione di deflazione (cioè di rallentamento dell’inflazione) avviatasi dopo la crisi finanziaria del 2008, è essenzialmente causata dalla fine del lockdown – e dunque dal fatto che le famiglie hanno ripreso a spendere – e dagli strozzamenti delle catene globali del valore. Si tratta del rallentamento, in primo luogo, dei traffici marittimi e delle difficoltà logistiche che si generano nel periodo della pandemia.
Agisce in tal senso anche la deglobalizzazione, cioè la tendenza delle grandi imprese a tornare in madrepatria riducendo gli investimenti in Paesi rischiosi: questa dinamica, infatti, riduce l’offerta su scala globale. In quella fase, l’inflazione è bassa e solo in leggero aumento.
L’inflazione, in Italia, accelera soprattutto a partire dal mese di giugno scorso, quando raggiunge – su fonte ISTAT – l’8%. L’aumento dei prezzi inizia, peraltro su scala globale, già prima del 24 febbraio 2022 – data dell’invasione russa dell’Ucraina – ed è causato, in quella fase, principalmente dalla ripresa dei consumi dopo il lockdown. Si tratta di un’inflazione contenuta che viaggia con ritmi modesti: ISTAT riporta che l’inflazione media nel 2021 è stata uguale all’1,9% e nel 2020 al -0,1%. Infatti, veniamo da una lunga stagione di deflazione. L’inflazione è cresciuta del ben 8,9% rispetto al settembre 2021. In termini di tasso di variazione, il delta maggiore si registra appunto a giugno, quando l’inflazione in Italia passa dal 6,8% (maggio 2022) all’8% del mese successivo (+1,2). È il maggiore incremento mensile dal settembre 2020, inferiore solo a quello a cavallo dei mesi di gennaio-febbraio 2022, in concomitanza con lo scoppio della guerra, con un +1,6.
È solo a far data dal momento in cui inizia a far sentire i suoi effetti la riduzione della fornitura di gas russo che l’inflazione impenna. L’impennata viene ulteriormente accentuata dall’attività speculativa nel mercato di Amsterdam, dove è appunto quotato il gas. Gli effetti cominciano a essere severi: l’unione consumatori stima oggi una spesa addizionale per una famiglia a medio reddito italiana, per l’aumento del prezzo dei beni di prima necessità, di circa 650 euro annui.
Altre cause (meno rilevanti) possono essere considerate: la scarsità di grano, a sua volta imputabile alla guerra in Ucraina – Russia e Ucraina sono grandi produttori di grano – e alla siccità e ai cambiamenti climatici, e di altre materie prime alimentari, per esempio il mais.
L’inflazione peggiora una distribuzione del reddito che, in Italia, è già fortemente sbilanciata a danno dei più poveri. Da una stima della Banca d’Italia presente nel Rapporto del luglio 2022 si deduce che il consumo dei beni alimentari del quintile più povero della popolazione italiana costituisce il 34,9% del reddito disponibile, contro il 7,7% dell’ultimo quintile. Il peso del consumo di beni energetici, per i più poveri, è pari al 10,4% a fronte di un’incidenza dell’1,6% per i più ricchi. Il peso del consumo di combustibili sul reddito disponibile è pari al 5,9% nel primo quintile contro il 2% del quintile superiore. Questa evidenza riflette la circostanza che i più poveri consumano maggiormente prodotti del cosiddetto “carrello della spesa”, nel quale l’inflazione è maggiore, rispetto a quanto fanno le famiglie più ricche. Si stima, per esempio, che l’aumento dei prezzi dei beni alimentari erode quasi il 3% (2.8%) del reddito disponibile per le fasce più povere e, al crescere del reddito, incide sempre meno sul totale dei consumi (la spesa dei ricchi è solo marginalmente spesa alimentare). Dunque, le famiglie molto ricche continuano a essere poco vulnerabili all’aumento dei prezzi, mentre le famiglie povere ne escono fortemente colpite e tanto più colpite quanto più sono povere.