L'analisi
«L’arte della guerra» di Cina e Russia e la sfida al dollaro
Per capire cosa sta accadendo fra Russia e Cina sarebbe auspicabile leggere L’Arte della Guerra di Sun Tzu. E gli antichi manuali di strategia cinese. E rileggersi le pagine di Guerra e Pace
Per capire cosa sta accadendo fra Russia e Cina sarebbe auspicabile leggere L’Arte della Guerra di Sun Tzu. E gli antichi manuali di strategia cinese. E rileggersi le pagine di Guerra e Pace che narrano la disfatta di Napoleone per mano del generale Kutuzov. E ricordarsi che lo stesso errore fu commesso da Hitler. E forse bisognerebbe rievocare le ragioni che hanno permesso all’Occidente di sconfiggere l’Unione Sovietica trent’anni fa. In quell’occasione, per noi fausta, prevalse grazie alla sua superiorità strategica e alla capacità di logorare l’impero comunista, impegnandolo in competizioni che sarebbero state insostenibili nel lungo periodo, dimostrando al contempo la superiorità delle nostre società democratiche, che allora brillavano per capacità inclusiva, solidità istituzionale, ampliamento del benessere a tutte le fasce sociali.
Da metà degli anni Novanta gli Stati Uniti sembrano aver smarrito la propria saggezza, trascinate da un’élite che ha fatto dell’irruenza e dell’impulsività il tratto dominante della propria politica estera. Dopo l’11 settembre l’America ha mostrato al mondo tutta la sua forza e la sua superiorità ma ha lasciato dietro di sé molte, troppe macerie. L’elenco dei fallimenti è impietoso: guerra in Iraq, di cui peraltro proprio in questi giorni ricorre il ventennale, Afghanistan, Libia, Siria, destabilizzazione di Egitto e Tunisia, per non citare che i casi più evidenti. A cui non si può non aggiungere un tassello essenziale degli equilibri geopolitici: la Russia, ben oltre e ben prima della questione ucraina, perché l’inimicizia fra Mosca e Washington ha origine nel 2004 e appare, in una prospettiva storica, illogica. Basta osservare la cartina del globo per rendersene conto. Se l’obiettivo degli Usa era (ed è) il contenimento della Cina, ancorare Mosca dalla propria parte avrebbe dovuto essere non solo sensato ma indispensabile, perché avrebbe permesso l’accerchiamento di Pechino, fra Giappone, Australia, Sud-Est Asiatico, India e, appunto, Russia.
Gli strateghi di Washington hanno invece puntato su uno scenario diverso: la rimozione di Putin come precondizione per un’alleanza con il Cremlino, ma l’evento non si è prodotto e oggi il prezzo rischia di essere alto. Perché dopo la visita di Xi Jinping a Mosca, l’alleanza fra i due Paesi è diventata ufficiale e nelle condizioni peggiori sia per Mosca sia per noi occidentali, essendo evidente che a guidare l’intesa è la Cina, con la Russia in posizione subordinata e di dipendenza economica, essendo stata tagliata fuori dall’Occidente. Detto fuor di metafora: siamo riusciti a consegnare nelle braccia di Pechino il più Paese più grande al mondo per estensione geografica e ricchissimo di materie prime.
In questo contesto l’incontro di Mosca, rafforza l’ambizione sino-russa, dichiarata da tempo, di cambiare la governance mondiale, da unipolare a multipolare e che gli Stati Uniti ovviamente respingono, accusando i due Paesi di voler compromettere l’Ordine Mondiale e ritenendola, in cuor proprio, velleitaria. Tecnicamente oggi lo è ma Xi Jinping applica le strategie di Sun Tzu, ragiona sui tempi lunghi, conosce l’arte della dissimulazione. E questo dovrebbe preoccupare noi occidentali, anche perché l’umore nel resto del mondo non ci è più così favorevole. Due giorni dopo l’annuncio del mandato di arresto per Putin, i rappresentanti di oltre 40 Paesi africani hanno accolto l’invito del Cremlino e si sono recati a Mosca, infischiandosene dell’accusa di crimini di guerra nei suoi confronti. Nelle stesse ore, l’Arabia Saudita e l’Iran hanno avviato la normalizzazione dei rapporti, un evento storico, su iniziativa non di Washington ma di Pechino, mentre anche l’India mostra crescenti segnali di insofferenza nei nostri confronti.
E non è un caso che Putin poche ore fa abbia annunciato che la Russia vuole «utilizzare lo yuan cinese nei pagamenti con Paesi dell’Asia, dell'Africa e dell’America Latina». La notizia dice poco ai non addetti ai lavori ma è rilevante, perché certifica e rafforza l’intenzione della Cina, d’intesa con il Cremlino, di sfidare il dollaro come moneta di riferimento internazionale, proponendo lo yuan come possibile alternativa. E sfidare il dollaro significa toccare uno dei pilastri dell’egemonia statunitense; dunque innalzare il livello della contesa strategica; dunque indurre Washington a rispondere, riscoprendo, auspicabilmente, antiche virtù, come la saggezza e la lungimiranza.