Il punto

Sul suicidio assistito bene la Regione Puglia, ma ci sono ancora dubbi

Francesco Alicino

Il 18 gennaio 2023, dopo la bocciatura di una proposta di legge regionale sul suicidio medicalmente assistito, una delibera della Giunta della Puglia impone alle strutture sanitarie di “dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale sul fine vita”

Il 18 gennaio 2023, dopo la bocciatura di una proposta di legge regionale sul suicidio medicalmente assistito, una delibera della Giunta della Puglia impone alle strutture sanitarie di “dare attuazione alla sentenza della Corte costituzionale sul fine vita”. Si tratta della sentenza Cappato del 2019, originata dal caso di Fabiano Antoniani noto anche come dj Fabo. Accuse di vario genere sono rivolte alla Giunta pugliese. La Corte non ha imposto obblighi a ospedali pubblici, affermano alcuni. Nessuna norma asseconda la richiesta del paziente, puntualizzano altri. Un componente del Comitato Nazionale per la Bioetica arriva a lamentare una “singolare forma di federalismo antropologico”. Una svista notevole, rilancia il Presidente dell’Associazione Scienza & Vita. Non manca chi pone l’accento sulla natura amministrativa della delibera, incapace a suo dire di disciplinare materie di questa portata.

L’impressione è che, ammantate da pseudo argomentazioni tecniche, queste posizioni riflettano stati diffusi di wishful thinking, sotto la cui influenza la Costituzione e la relativa giurisprudenza s’atteggiano a crogioli dell’alchimista: tutti vi trovano l’oro, purché lo mettano prima. Il che porta a oscurare una domanda tanto semplice e concreta quanto drammatica ed essenziale: accertate le condizioni stabilite dalla Corte costituzionale, come assistere una persona malata che liberamente decide di morire? Lo dovrà statuire la legge statale, si risponde: in questa materia, ai sensi dell’articolo 117 della Costituzione, i principi fondamentali sono posti dal legislatore nazionale, si precisa. Fatto sta che il Parlamento rimane inerte. Il che non giustifica a cascata l’inerzia delle Regioni, alle quali l’articolo 117 pure affida la “tutela della salute”.

Ad affermarlo è proprio la sentenza Cappato, con cui la Consulta ha calibrato la definizione di stato di necessità in connessione alle incriminazioni dell’aiuto al suicidio (art. 580 codice penale): pur essendo dettate dal bisogno di proteggere le persone deboli e vulnerabili, tali incriminazioni non legittimano l’imposizione generalizzata di trattamenti sanitari. Tanto più in presenza di sofferenze fisiche e psicologiche, che persone affette da patologie irreversibili ritengono intollerabili. Devono perciò poter rifiutare le cure chiudendo, se del caso, il sipario sulla propria esistenza, rispetto alla quale si impone la necessità di una morte dignitosa. È un diritto fondamentale, secondo l’articolo 32 della Costituzione che, appunto, legittima il rifiuto di trattamenti sanitari. Per esercitarlo si ha però bisogno dell’assistenza di altri che, nei perimetri normativi dettati dalla Corte, non commettono reato.

Insomma, le Regioni non devono discutere di scienza, etica, tecnica e filosofia. Né tanto meno devono far ricorso a norme di nuovo conio. Per questo c’è già la sentenza del 2019 che, producendo diritto valido su tutto il territorio statale, chiama gli organi regionali a darvi attuazione. È un atto dovuto, come certifica il tragico precedente di Federico Carboni, la prima persona a morire in Italia mediante suicidio medicalmente assistito. Un caso, questo, risolto con l’intervento dell’amministrazione sanitaria marchigiana, nel solco di quanto stabilito dalla Consulta. Ma solo dopo anni di indecente attesa, almanaccata da vani dibattiti, molteplici pareri e ulteriori pronunce giudiziarie. Ed è proprio per evitare simili crudeltà che, in spirito di leale e costituzionale collaborazione, la Giunta pugliese interviene preventivamente. Lo fa per via amministrativa, nelle more del provvedimento parlamentare e della conseguente legge regionale. La bussola è qui rappresentata dai principi fondamentali minimi, come impressi dalla sentenza Cappato, con cui non si pongono neanche problemi di obiezione di coscienza: attribuito al medico il diritto di prestarsi, o no, a esaudire la richiesta del malato, l’obbligo semmai si impone nei confronti della struttura sanitaria. Ciò spiega il richiamo nella delibera al Comitato etico del Policlinico di Bari, organo collegale di garanzia per accertare il carattere libero e informato della scelta del paziente nonché gli altri presupposti che, alla luce della sentenza del 2019, giustificano l’aiuto (gratuito) dell’azienda ospedaliera pubblica.

Dubbi tuttavia permangono sulla genericità dell’atto che impone al Comitato etico di esprimersi “nel più breve tempo possibile”: fermo restando la natura ordinatoria dei termini, indicazioni più precise potrebbero comunque imprimere maggiore certezza allo svolgimento dell’attività dell’organo. Difficoltà emergono anche con riferimento alla composizione del Comitato, nel quale si auspica la presenza di figure dotate di specifiche competenze (psicologi, palliativisti, anestesisti, giuristi, etc.). L’intervento della Giunta si presta ad ogni modo a rendere meno imperfetto l’indirizzo costituzionale che, alieno da autoritative imposizioni, si impronta a ragionevoli applicazioni del principio di eguaglianza, come tale rispettoso della dignità delle persone e delle rispettive diversità culturali, religiose, politiche e sociali.

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