L'analisi
Lo «scivolone» di un'Italia in Blanco e nero
Si è passati così, nell’arco di qualche ora, dall’esordio sfolgorante con Sergio Mattarella e Roberto Benigni, dedicato alla Costituzione della Repubblica Italiana, a qualcosa che, comunque la si voglia spiegare, è poco giustificabile e per niente artistica
Blanco flagellum Sanremi. Dove si esibisce non crescono più i fiori. Come un lontano pronipote in formato bonsai del temibile re unno Attila, dopo il cui passaggio si diceva non crescesse più l’erba. Perché il cantante, nella serata inaugurale del Festival di Sanremo, ha pensato bene di distruggere gli addobbi floreali della scenografia facendo terra bruciata di tutto ciò che gli stava intorno sul palco, pensando, evidentemente, di passare alla storia (del Festival).
Si è passati così, nell’arco di qualche ora, dall’esordio sfolgorante con Sergio Mattarella e Roberto Benigni, dedicato alla Costituzione della Repubblica Italiana, a qualcosa che, comunque la si voglia spiegare, è poco giustificabile e per niente artistica.
Una reazione rabbiosa al mancato funzionamento delle cuffiette che consentono a chi canta di sentire voce e musicisti, come a caldo ha affermato Blanco di fronte all’attonito Amadeus?
Per la verità, gli eccessi di ira del performer bresciano si sono alternati a sorrisi enigmatici che hanno trovato una spiegazione quando ha aggiunto di essersi divertito molto.
Una performance concordata con il direttore artistico per innalzare l’audience? Amadeus lo ha chiaramente smentito, Blanco avrebbe dovuto stendersi sui fiori durante l’esecuzione del brano – dal titolo L’isola delle rose –, certo non dare spazio ad una (inutile) furia distruttiva.
E ben poco – anzi nulla – c’entra l’arte o la libertà d’espressione, quella rievocata con forza proprio poco prima da Benigni nel suo monologo menzionando l’art. 21 della Costituzione. Così come è improprio ricordare chi nel mondo del rock spacca le chitarre durante i concerti, da Pete Townshend degli Who negli anni Sessanta del secolo scorso ai nostri Maneskin oggi.
Un gesto nato, come dichiarato dal chitarrista della band britannica tempo fa, casualmente ed espressione di «un mix di frustrazione, insicurezza e teatro». Un rito approdato anche a Sanremo nel 2001 grazie ai Placebo.
Blanco è stato – forse a sua insaputa – vincitore di un Festival nella Città dei fiori, lo scorso anno (insieme a Mahmood), e in questa veste è stato invitato. La sua ancora breve carriera, iniziata nel 2020, è decollata dopo tale successo, ma questo non ha evidentemente ispirato un senso di rispetto per la manifestazione. Il performer diciannovenne, magari, ha pensato che dopo la vittoria solo qualcosa di forte ed esplosivo avrebbe potuto far parlare di sé. Perché, non dimentichiamolo, Sanremo è il più potente strumento di promozione discografica del nostro Paese. Una vetrina unica, al di là dello spessore artistico di ciascuno.
Tuttavia Riccardo Fabbriconi (questo il vero nome di Blanco) ha sbagliato clamorosamente obiettivo, perché i fiori sono il simbolo di Sanremo, che è la Città dei fiori. Ad inventare Sanremo (e poi il Club Tenco) fu Amilcare Rambaldi, un fioraio sanremese. Non è un caso che la discutibile performance abbia sollevato proteste in ogni dove nell’ambiente florovivaistico. Sanremo va avanti, ovviamente, ma quel che ne esce è l’immagine di un Festival (e di un’Italia) in Blanco e nero, con tanti picchi (non solo di ascolto) e qualche scivolone.