Il caso
Due suicidi per una chat, tra debolezze, fragilità e una lunga serie di errori
La vicenda dovrebbe insegnare molte cose. La prima è che non si possono costruire relazioni, tantomeno d’amore, attraverso le chat
Due suicidi per una chat. Potrebbe riassumersi così la storiaccia avvenuta nel Forlivese, ma sarebbe irrispettoso verso quei morti e superficiale. I fatti. Il 23 settembre del 2021 un giovane di 24 anni si uccide dopo aver scoperto che per un anno era stato ingannato in chat: Irene, la ragazza bellissima di cui si era innamorato e con cui aveva scambiato più di ottomila messaggi d’amore, era in realtà un adulto.
Un falso profilo costruito rubando la foto di una modella e inventandosi un nome. Il giovane aveva anche lasciato un commovente messaggio alla famiglia. È evidente che siamo di fronte a una fragilità psicologica e a una debole, se non inesistente, rete di relazioni. Ma quanti giovani oggi vivono una situazione simile? Se già uccidersi per una fallita relazione reale è segno di una delicata condizione mentale, quali vuoti si nascondono dietro il suicidio per una fasulla relazione virtuale? L’altra mattina l’epilogo, ancora più triste. Un uomo di 64 anni si uccide perché non regge al rimorso e alla vergogna. In paese (13mila abitanti) lo hanno riconosciuto: è lui che ha creato e gestito il profilo della falsa Irene. La famiglia della vittima lo aveva denunciato, era stato accusato di truffa e morte come conseguenza di altro reato.
Ma non essendoci stata richiesta di denaro, il reato di truffa è caduto e con esso anche l’altra grave accusa. Alla fine è stata riconosciuta solo la sostituzione di persona: un decreto penale di condanna e 825 euro di sanzione e la cosa è finita lì.
Ma non per i genitori della vittima, che non si arrendono, scrivono anche alla premier e, alla fine, raccontano la vicenda alle Iene, la popolare trasmissione di Italia1.
L’inviato del programma si mette sulle tracce della finta Irene: è un uomo di 64 anni, lo intervista oscurando il volto; però nel filmato si intravedono alcuni tatuaggi che lo rendono subito riconoscibile nel piccolo paese dove vive. Comincia il suo calvario. Intervistato dal Resto del Carlino dice fra le altre cose: «Sono stanco, mi stanno rovinando la vita». Passa qualche giorno e anche lui si uccide.
La vicenda dovrebbe insegnare molte cose. La prima è che non si possono costruire relazioni, tantomeno d’amore, attraverso le chat. La confusione tra vita reale e vita virtuale rischia di far pagare prezzi altissimi, soprattutto quando i protagonisti sono persone psicologicamente fragili, timide, introverse. Il compito di vigilanza da parte delle famiglie, degli amici – se ci sono – e degli insegnanti è importantissimo.
Soprattutto i genitori hanno gli strumenti psicologici per scoprire il disagio, di intuire la nascita di un innaturale rapporto virtuale che altera la percezione del reale.
Poi c’è il ruolo della giustizia, ancora impreparata ad affrontare temi così complessi e legati a comportamenti e dinamiche che i Codici ancora non contemplano o che valutano alla luce di una norma e di una giurisprudenza obsolete. Forse una sanzione diversa avrebbe reso più giustizia a quel giovane morto nel fiore degli anni e la famiglia non avrebbe provato il bisogno di rivolgersi ai media. Una soluzione il cui obiettivo era in definitiva una giustizia fai da te attraverso la gogna mediatica.
L’avvocato che ha seguito i genitori forse avrebbe dovuto farsi qualche domanda in più su quella scelta e chiedersi quali conseguenze avrebbe potuto avere dare in pasto al pubblico l’autore del falso profilo. Se la rabbia giustizialista dei genitori è comprensibile, desta molti dubbi la leggerezza con cui il loro legale li avrebbe assecondati.
Da ultimo il ruolo di programmi come «Le Iene» che, sotto la nobile veste del giornalismo d’inchiesta o di approfondimento, troppo spesso rimestano nel torbido.
I pomeriggi televisivi sono ormai colonizzati dall’infotainment pseudo giornalistico, con tutto il corollario di esperti, criminologi e tuttologi. Il giornalismo e l’inchiesta non c’entrano nulla con tali surrogati, senza regole né etica. Tanto che nella maggior parte dei casi i giornalisti, quelli iscritti a un Ordine e vincolati al rispetto di una deontologia, sono ai margini o non ci sono affatto. Interviste, programmi e presunti approfondimenti vengono realizzati da altri, che si credono al di sopra di ogni minimo rispetto per la dignità e l’intimità delle persone.
Il confine fra diritto di cronaca e diritto alla privacy è labile, faticoso da individuare e rispettare, ma questo non significa che si possa allegramente ignorarlo. Molto spesso, come in questo caso, la soluzione è un ipocrita oscuramento del volto dei soggetti al centro della cronaca. Un’idiozia, purtroppo comune anche a molti giornalisti. Perché mostrare un volto oscurato o pixellato è un’offesa agli utenti, un controsenso comunicativo e poi perché il riconoscimento attraverso un particolare sfuggito (il tatuaggio, nel caso forlivese) è sempre possibile. Le immagini o si possono pubblicare o non si possono pubblicare. I volti oscurati o le voci artefatte sono una presa per i fondelli per chi guarda e ascolta e una pezza sulla coscienza di chi li diffonde. Ora ci sono due famiglie distrutte, ma non solo per colpa delle chat.