La riflessione

Quando lo scontro tra tifoserie somiglia alla politica

Pino Donghi

Il linguaggio scappa di mano a chi lo usa, è indifferente alle intenzioni

Si è concluso il campionato di calcio, e anche le coppe europee sono state assegnate. Feste e caroselli per i vincenti, sofferenza e rammarico per chi è arrivato secondo, ad un passo dalla felicità: tertium non datur… o meglio! Nel calcio, più che nello sport, c’è un altro e diverso modo per gioire, ed è la sconfitta del rivale più prossimo. Magra consolazione? Fa parte del gioco, finché gioco rimane. Da romano e disincantatamente romanista – non vado alla stadio e, tra una cena con amici e la partita, opto sempre per la prima – ho un po’ sofferto di arrivare appena dietro la Lazio e molto gioito per la vittoria nella Conference League. I tifosi laziali, quelli «veri», ci avevano sbeffeggiato prima e augurandoci di perdere la finale, quella che anche a vincerla sarebbe rimasta pur sempre la coppa degli sfigati; va da sé, i romanisti, quelli «veri», hanno festeggiato come per la vittoria nel campionato del Mondo e reso pan per focaccia agli odiati cugini. A parti inverse, gli argomenti degli uni sarebbero stati quelli degli altri. Funziona così.

E però, almeno da una trentina d’anni, lo stadio è entrato nella politica o, se si vuole, la politica s’è fatta scontro tra tifoserie. Credo si possa dire che è una conseguenza della «discesa in campo». La Storia s’incaricherà di giudicare la figura e l’operato politico di Silvio Berlusconi, ma pochi dubbi si possono nutrire sul fatto che il Cavaliere ne abbia innovato l’offerta comunicativa. Dalla scelta del nome e del logo, fino alla definizione dei deputati-senatori come «azzurri», all’abitudine di chiamare «squadra» quella che fino al ’94 era stata sempre la compagine governativa, l’intuizione berlusconiana è stata di trapiantare i linguaggi della pubblicità e del calcio dentro una modalità di discorso che, fino a non molti anni prima, si reggeva su ardite metafore giuridiche, al limite delle astuzie delle «convergenze parallele» o della «non-astensione». Bollato come «teatrino della politica», si è cambiato programma: fine del palcoscenico, ora si va allo stadio. E di provvedimenti approvati «in zona Cesarini», di sgambetti e proposte «in fuori gioco», di VAR costituzionali e necessarie «ripartenze» delle riforme parla oramai chiunque, indipendentemente dalla posizione dello scranno nell’emiciclo. Una rivoluzione linguistica.

Sicché la lingua determina chi la usa, e non il contrario, è il linguaggio a costruire i suoi attori: una volta scelto, il discorso si svolge secondo le sue regole, con tante opportunità e non pochi vincoli. Così, se una volta gli iscritti e anche i simpatizzanti di un partito erano «militanti» – e il discorso era guerresco, per carità – ora siamo tutti tifosi. Con una conseguenza non banale: il milite segue, o almeno seguiva tradizionalmente, un codice d’onore, che prevede anche il rispetto del nemico. Il tifoso fa del «non rispetto» la sua cifra di riconoscibilità: le ragioni della curva opposta non esistono per definizione, il rigore contro non c’è a dispetto di qualsiasi evidenza, quello a favore è supportato da una testimonianza divina. Il tifoso non sente ragioni e tifa contro con ancor più soddisfazione che a favore.

Che dopo il ’92, dopo tangentopoli, dopo i massacri di Capaci e di via d’Amelio, dopo la grande crisi della prima Repubblica ci fosse bisogno di aria nuova, c’è poco da discutere. Personalmente non nutro nostalgie. Che da curioso e un po’ anche studioso del linguaggio, abbia compreso la novità comunicativa proposta e poi imposta da Silvio Berlusconi, non mi ha mai indotto a votare per il suo partito e ad apprezzarne la politica: sicché non riconoscerne l’intelligenza mi è sempre parso atteggiamento fazioso, appunto.

C’è però un prezzo che stiamo pagando: il linguaggio scappa di mano a chi lo usa, è indifferente alle intenzioni. Oggi la Politica e, più in generale, il dibattito pubblico si è fatto scontro tra tifoserie. L’argomento e la ragione dell’altro non sono nemmeno ricevibili. Ci tiriamo sassate verbali e lacrimogeni argomentativi, ci insultiamo per il fatto di appartenere, e se esprimiamo un’opinione quella vale come etichetta, un tatuaggio indelebile che ci iscrive d’ufficio dentro uno schieramento a dispetto di qualsiasi nostra volontà. Che poi sui social o dai social, tutto questo risulti amplificato esponenzialmente è un altro dato difficilmente contestabile, ma non parte da lì. In presenza o sulla rete, oggi siamo bellicisti o putinisti: tertium non datur.
Il Teatro odorava di chiuso. Dallo Stadio esalano fetori. Per la politica ci vorrebbe la riscoperta di una lingua fresca e di un discorso originale. Forse con un cedimento nostalgico, nella oramai irrimandabile transizione ecologica, non sarebbe male riscoprire il profumo di un campetto d’erba dove giocare a pallone. Non senza qualche salutare sfottò.

Privacy Policy Cookie Policy