La mostra
Cresci e la sua Lucania: l'esorcismo del tempo
Al MAXXI di Roma inaugurata una esposizione sull’artista in Basilicata
In un assolato giorno di agosto 1966 il giovane Mario Cresci, esordiente designer e fotografo genovese, scese da non ricorda più quale treno ad una «stazione che non c’era» in Basilicata. Voleva andare a Tricarico, ma la stazione – di fatto «una casupola» - era quella di Grassano. Dovette attendere quindi nel deserto estivo l’arrivo di una corriera. Lo portò nel paese di cui «non sapevo nulla» – mi confida alla inaugurazione nel MAXXI di Roma della grande mostra dedicata proprio ai venti anni circa di sua presenza creativa e progettuale a Matera.
«Ci ero sceso da Santa Margherita Ligure – spiega - perché convocato da Aldo Musacchio, mio docente di sociologia all’Istituto di Design Industriale di Venezia nel quale mi ero diplomato». Stava già lì, con alcuni del suo gruppo Polis, per una ricerca finalizzata alla redazione del piano regolatore di Tricarico, su committenza del Comune lucano. A Cresci toccava la parte di indagine foto-grafica su una realtà della quale aveva appreso qualcosa soltanto dai discorsi su Matera e i Sassi promossi dal suo maestro (di origine calabrese) rinomato per saggi sul Mezzogiorno. Era fresco di passioni per Merleau-Ponty, il Bauhaus, Malevic. Ma non aveva letto Carlo Levi né Rocco Scotellaro. Traumatico fu quindi l’impatto con la civiltà contadina del Sud e con il suo tempo ciclico, così distante dal tempo progressivo del modernismo urbano. Per questo Cresci dirà, anni dopo, che scendendo da quel treno «ebbi la sensazione immediata di come una persona possa perdere improvvisamente la memoria e la cognizione del tempo».
Da qui il titolo della rassegna «Un esorcismo del tempo». Segnala una avventura di mescolamento di modi del vivere per resettarli in segni ed immagini «migranti». Iniziata a Tricarico da quando Cresci entrò in punta di piedi a fotografare gli interni di case povere e mise in posa i suoi abitatori con i ritratti del loro cari defunti o lontani (le «fotografie di fotografie»). Dalla partenza antropologica, mette in causa anche i temi della memoria e della presenza -assenza, tra «Ritratti reali» e «Interni mossi». Alla prima ricognizione del 1966 segue il ritorno nel 1967, quando viene prodotto dal gruppo Polis un «Quaderno sul Piano», e poi nei primi ‘70. Con l’interruzione di due anni cruciali, 1968-69, trascorsi tra Roma e Parigi. Poi la definitiva scelta: vivere a Matera, sin quasi al 1990. Originata da un’altra ricerca commissionata nel 1971 al Polis - ribattezzatosi «Il Politecnico». Ne è frutto il «Rapporto su Matera – Una città meridionale fra sviluppo e sottosviluppo». Le relazioni visive tra i Sassi allora spopolati e le nuove costruzioni, tradotte anche in strutture grafiche primarie, connotano da allora un lavoro a più fasi tra indagine e sperimentazione. Sino al libro Matera – Immagini e documenti (1975).
L’esposizione in teca dei reperti rari o inediti relativi al «Quaderno» di Tricarico e al «Rapporto» su Matera è il primo grande merito della mostra curata da Marco Scotini con Simona Antonacci. Mentre un serpente di immagini materane estratte dal libro del 1975 annuncia sulla parete d’ingresso lo svolgimento di percorsi visivi coerenti con le sinuosità e i dislivelli della galleria all’ultimo piano del Museo. Fotografie solo in parte esposte in altre occasioni. Qui attinte nella versione originale da Archivi poco esplorati – come quello personale dell’autore, del CSAC di Parma, la collezione del MAXXI. E da collezioni private, fra cui quella pugliese di Lidia Carrieri: l’intero ciclo di foto su apparizioni e sparizioni in bianco a Martina Franca eseguite da Cresci nel 1979, esposte a Martina nel 1980 e riprodotte in libro nel 1981. È l’unica ma importante escursione fuori dai confini lucani documentata in mostra. Insieme con la serie laziale di «Interni» e «interni mossi» scattata a Barbarano Romano nel 1978-79, ma connessa con i cicli prodotti a Tricarico.
Un’altra direzione tematica si sviluppa con la serie delle «Misurazioni» 1975-79. Traspone in grafica, esalta in foto, appiattisce in rayogrammi gli oggetti di cultura materiale realizzati in legno o creta o ferro da artigiani improvvisati per usi domestici, di lavoro e per gioco (ne sono esposti molti campioni fisici). Una esperienza che si fa anche collettiva, con laboratori e corsi. Spinta sino a «riposizionare il Mezzogiorno come un’avanguardia del design contemporaneo italiano» – sostiene l’americana Lindsay Harris in uno dei saggi nel libro -catalogo edito da Contrasto. Spiace per questo che sia ignorato il rapporto strategico di Cresci con i giovani operatori di Bari che produce fra l’altro la mostra «I grandi esclusi» (1978) e la rivista «Materiali». Solo un cenno alla sua partecipazione alla storica mostra «Viaggio in Italia» (1984) guidata da Ghirri, nella quale appare la sua idea nomadica di fotografia. Scotini acutamente la definisce «eretica, contaminata, fuori di sé». Ma forse la contaminazione maggiore che Cresci ha assunto dal Sud è per una vita resiliente nell’immaginario. Ne è metafora il Pinocchio snodabile sagomato in legno che lui ha tradotto in ombra nera su carta. Ora si moltiplica ingigantita sull’alta vetrata da cui Roma traspare nel Museo del XXI secolo. «Un pezzo di legno che prende sembianze umane e poi continua a muoversi per sempre nella sua immagine». (Cresci ‘77).