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Gabriele Moncini, un «sì» col dubbio: «Al Bari con qualche paura»

antonello raimondo

L'attaccante pistoiese in un'intervista a cuore aperto. Sogno nel cassetto? «Dimostrare il mio valore in Serie A. Ho questo sentore, sento che ce la farò. E mi auguro di farlo qui a Bari»

Chi è Gabriele fuori dal campo?

«Un ragazzo normalissimo, nel senso che cerco sempre di distinguermi innanzitutto per educazione, quella che mi hanno dato i miei genitori, credo sia la cosa più importante».

Come nasce la passione per il calcio?

«Mio babbo ha giocato nella Pistoiese, la città dove sono nato io. Nella squadra che negli anni ‘80 vinse il campionato di B. Poi lui mi ha raccontato di un fantomatico infortunio al crociato, che non so se è vero, questa è la sua versione... Giocava anche mio fratello più grande, ho iniziato con lui. Amore a prima vista. Da quando avevo 8 anni ho sempre giocato a calcio».

I momenti chiave.

«Il passaggio alla Juve. Allora io ho iniziato a fare i primi campionati giovanissimi nazionali dove ti confrontavi con squadre fuori dalla tua regione. Quell’anno andò benissimo, feci tanti gol e arrivò la chiamata della Juve. Io, tifosissimo bianconero, volli a tutti i costi andare a Torino. A luglio sono partito contro il volere di mia mamma. Giustamente non voleva mandarmi via, però io ero super deciso, per me la Juve era il sogno che si avverava».

Le amicizie che aveva in Toscana hanno subito dei cambiamenti, serve crearsi un nuovo mondo.

«Sì, per forza, mi ricordo quando ancora vivevo a Pistoia si parlava di me, quello bravo a calcio, poi in realtà quando sono andato veramente alla Juventus ho visto magari tante persone avvicinarsi a me con altri scopi, anche se alla fine poi non è che ci sono i soldi di mezzo, però magari per notorietà o cose del genere. Però sì, le amicizie si sono modificate, devo essere sincero, io sono stato anche fortunato perché del gruppo di amici che avevo quando avevo 14 anni più o meno quasi tutti sono rimasti. Non migliori amici, però abbiamo ancora un bel rapporto».

Quanto è pericoloso arrivare nel mondo del calcio vero per un ragazzino?

«A 16 anni mi allenavo con Conte, c’erano Pirlo, Buffon, Del Piero. Ci metti un attimo a perdere la testa, nel senso che magari ancora non hai le possibilità economiche, però vedi la vita che fanno loro, come si comportano e puoi perdere la bussola. Io volevo smettere con la scuola perché i giocatori della primavera smettevano di andare a scuola e potevano andare a allenarsi la mattina. Vai ad allenarti a Vinovo con quei campioni. Per fortuna avevo i miei genitori dietro che mi hanno fatto diplomare, però sì ci vuole un attimo a perdere la bussola».

Quando si è detto, “oh, Gabriele ce l’hai fatta”?

«Dopo la bocciatura alla Juve, nel senso che mi hanno mandato via dalla squadra Primavera e per me il mondo lì è crollato, ho detto sono venuto via da casa, 17 anni, sono stato bocciato. Avevo fatto bene comunque l’anno prima e quindi ho detto e ora? Non posso giocare a calcio. Invece mi prende il Cesena, io non volevo neanche andare, però ho detto dai proviamo, al massimo me ne tornerò a casa l’anno dopo. In prima squadra c’era Bisoli, al quale piacevo, mi ha buttato dentro e io dall’essere bocciato dalla Juve giocavo in Serie B a 17 anni. Da lì sono ripartito e lì ho visto com’è la vita del calciatore professionista».

Qual è stata la figura fondamentale?

«Il mio procuratore. Siamo veramente amici da quando avevo 13 anni, abbiamo un rapporto straordinario».

Cosa vuol dire per te essere un attaccante di categoria in B?

«Tante volte magari la prendo male perché sono molto orgoglioso e soprattutto vedendo un po’ la mia carriera credo che avrei potuto fare qualcosa di più. E, quindi, un po’ mi fa incazzare questa cosa dell’attaccante di categoria. Però effettivamente se vai a vedere la mia carriera sono un attaccante che gioca da sempre in Serie B, quindi ci sta che venga etichettato così».

E se le dicessimo stagione 2018-2019?

«Prima parte alla Spal. Praticamente l’anno dopo, avendo fatto bene in Serie C, mi riprende il Cesena, però c’è il fallimento della società e quindi c’era un direttore, Davide Vagnati, che era stato a Torino, che aveva la fissa di me, mi prende e inizia la Serie A. Un’esperienza positiva, dura, perché ho giocato poco, eravamo 5-6 attaccanti, avevo davanti gente forte e poi a gennaio ho deciso di andare a giocare. Io consiglio anche ai giovani di andare a giocare, perché sennò non migliori. Andai a Cittadella e furono sei mesi pazzeschi. La squadra girava bene, l’ambiente era perfetto, ogni palla che buttavano dentro facevo gol, è stato bello, peccato che siamo arrivati corti, insomma in finale di ritorno abbiamo perso purtroppo. Tu fai 15 gol in 22 presenze e vincete la finale di andata 2-0 col Verona. Sì, era fatta. Diciamo che come squadra loro ovviamente erano più forti. Arrivavamo già in semifinale col Benevento veramente corti, cioè eravamo in 11, avevamo 4-5 giocatori importanti infortunati, quindi già arrivare in finale per noi era quasi un miracolo perché veramente non avevamo un cambio. All’andata abbiamo dato l’anima, il ritorno veramente finimmo in 9 il primo tempo con solo giocatori da Beretti in panchina, fu un momento veramente tosto».

Si dice che le grandi stagioni si costruiscano nello spogliatoio

«Più che si costruiscono... nascono. Tante volte scoppiano scintille in uno spogliatoio. Non è fondamentale andare a cena con i compagni ma andare d’accordo in campo. Io ho visto la serie dei Chicago Bulls, non sono mai andati a cena insieme ma in campo erano una cosa sola. Le stagioni più positive quando nasceva qualcosa in spogliatoio, anche dalla sofferenza. Momento di difficoltà, il gruppo si compattava, ma non a parole, in campo. Ci credo molto in questa cosa. Più divento grande e più mi rendo conto di alcune dinamiche interne allo spogliatoio. Però cerco sempre di mantenere una distanza da queste cose, quindi magari non sarò un leader a parole, però cerco sempre di fare quella corsa in più per il compagno, in campo di dimostrarti con l’atteggiamento che in momento di difficoltà io ci sono. Poi magari durante la settimana o in spogliatoio non sono uno che ti fa il discorso motivazionale, però sai che il sabato su di me puoi contare».

Quale musica ascolta e che ruolo ha la musica nella sua giornata?

«Tutto tranne il latinoamericano, quindi ho una vasta gamma. Rock, punk rock... ne vado matto. Da poco ho iniziato a fare lezioni di pianoforte, quindi ha un ruolo fondamentale, però sì dai mi piace tutto, però punk rock o rock di più. Una canzone? Una di Nirvana, “Smells like teen spirit”, mi piace molto».

Come se la cava ai fornelli?

«Sopravvivo, nel senso che sono andato a vivere da solo a 18 anni e cucinavo. Ho migliorato, mi impegno. Brucio qualsiasi cosa, però. La musica fa da compagnia».

Quali sono le sue altre passioni?

«Ho scoperto il golf, che ti ruba l’anima praticamente. e Appena finito l’allenamento, a Brescia, andavo tre volte a settimana a giocare sul lago di Garda. Una passione che veramente ti prende. Adesso l’ho un po’ accantonato perché l’anno scorso ho avuto problemi di pubalgia. Anche per una roba scaramantica. Ma tornerò a giocare».

Tre pregi e tre difetti, come persona?

«Sono troppo permaloso, un po’ troppo negativo... realista, nel senso guardo sempre le cose come stanno e forse ho perso un po’ quella cosa di sognare come quando ero ragazzino. Questo me lo rimprovero molto. Pregi? Credo di essere una persona buona, di esserci sempre con le persone alle quali voglio bene, essere disponibile. Sono un “toro” non mollo mai, quando decido di fare una cosa vado fino in fondo».

Come sta andando questa avventura a Bari? E l’impatto con la gente?

«Molto bene. Ero un po’ preoccupato, in tutta sincerità, di allontanarmi così tanto da casa. Invece sono stato smentito subito, il clima mi aiuta sicuramente, la mattina fortunatamente vivo di fronte al mare e qua la gente è molto calda. Vado a fare la spesa, mi faccio le grandi chiacchierate. Tutto bello, molto piacevole».

Con Lorenzo Dickman, una storia lunghissima.

«Sì, ci troviamo ormai ovunque. Siamo partiti già da giovani dagli gli under 16 ai 21 abbiamo fatto tutto insieme. Poi l’esperienza nella Spal due anni, un altro anno alla Spal, Brescia due anni e un altro anno qui a Bari. Non so perché mi insegue, però finalmente quest’anno mi ha fatto due assist per ora, spero ne faccia altri».

Dove si vedi tra dieci anni?

«Non lo so, sicuramente in Romagna, a Cesenatico, a godermi un po’ il dopo carriera. Spero di avere del tempo libero e spero soprattutto di avere una famiglia mia. Comunque sicuramente mi vedo in Romagna, che è la mia seconda casa. Tanta fatica durante tutto l’anno. Quello che mi auguro e quello che servirebbe è l’equilibrio. In Italia magari non siamo bravissimi in questa cosa e la Serie B è un campionato veramente indecifrabile. Cioè puoi andare a giocare con l’ultima e rischiare di perdere, anzi succede più che spesso. La cosa che ti può fa svoltare, se vuoi ambire a un campionato importante, è l’equilibrio. E soprattutto la fame. Questo è un campionato in cui un calciatore affermato può far fatica. Quindi l’atteggiamento e le motivazioni fanno la differenza».

Segreti nel cassetto di Gabriele Mancini?

«Vorrei dimostrare il mio valore in Serie A. Ho questo sentore, sento che ce la farò. E mi auguro di farlo qui a Bari».

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