Cultura
Brindisi, 30 anni fa la scoperta dei bronzi di Punta Serrone
Circa 700 elementi, compresa una coppia d’ali appartenenti a una Vittoria alata, una Nike alta oltre due metri e non troppo dissimile dalla statua marmorea in esposizione al Louvre di Parigi
Reperire dei bronzi antichi, in mare o altrove, non è né semplice né comune. Dalla fine IV sec. d.C. dovette infatti farsi pressoché sistematica la distruzione delle statue in bronzo, quelle che, isolate o in gruppo, costituivano una parte essenziale dell’arredo urbano delle città, oppure guarnivano i santuari, arricchivano i musei e adornavano le più lussuose residenze private: per lo più, in età tardoantica esse verranno fuse per riutilizzarne il metallo.
I «Bronzi di Riace» sono quindi stati un ritrovamento straordinario. E lo stesso si può dire per il «Satiro danzante» di Mazara del Vallo, o per il Poseidon di Capo Artemisio, in Grecia. Ma a Brindisi, la quantità di reperti che presero a riemergere esattamente trent’anni fa, il 19 luglio 1992, presso Punta del Serrone, è stata ben più copiosa: circa 700 elementi, compresa una coppia d’ali appartenenti a una Vittoria alata, una Nike alta oltre due metri e non troppo dissimile dalla statua marmorea in esposizione al Louvre di Parigi.
Fra i reperti brindisini si poterono presto distinguere dei pezzi eccezionali: un’immagine di Antìstene, filosofo cinico allievo di Socrate, opera di Silanione (bronzista ateniese del IV secolo a. C.); una grandiosa statua di Apollo; il torso e la testa del «principe ellenistico», identificato con quel Lucio Emilio Paolo che, nel 168 a. C., con la battaglia di Pidna, sancì la vittoria di Roma sulla Macedonia; un ritratto dell’imperatore romano Tiberio e un altro, piuttosto raro, di Elio Cesare, adottato dall’imperatore Adriano e morto prematuramente. E ancora la probabile immagine di Faustina minore, moglie di Marco Aurelio, quella di una bellissima fanciulla dall’acconciatura accurata, forse la figlia stessa dell’imperatore-filosofo, e la figura di un adolescente in atteggiamento malinconico, avvolto in un mantello, identificabile con Vibullius Polydeukion, allievo prediletto e figlio adottivo di Erode Attico, il sofista ateniese, mecenate e amico degli imperatori Adriano e Antonino Pio.
È noto che Polydeukion morì a soli 15 anni, lasciando nello sconforto il suo maestro che, per ricordarlo, gli dedicò numerose statue diffuse tra le sue ville, i monumenti pubblici e i santuari della Grecia. In ogni caso, verosimilmente i bronzi brindisini facevano parte di un carico navale affondato fra IV e V secolo, e destinato alla fusione per il riuso del metallo. Erano probabilmente avviati a una delle officine metallurgiche di Brindisi, nota per la produzione di meravigliosi specchi bronzei. Oppure erano diretti verso le sponde tirreniche. Di sicuro non erano scarti di lavorazione, giacché troppo accurati si mostrano i dettagli, con cesellature di pregio, rifiniture superficiali e tasselli ribattuti a correzione dei difetti di lavorazione. Pertanto, quelle statue erano state letteralmente fatte a pezzi, ridotte così a bella posta. Presentavano tracce di schiacciamenti, perforazioni, lesioni derivanti da colpi violenti. Elementi distorti, fratture, spaccature provocate in antico. Ma perché squarciare opere di tale bellezza? Cosa aveva indotto a ridurle in brandelli da avviare alla liquefazione?
La loro preziosità non poteva essere stata dimenticata. Il loro valore, anche quello strettamente economico, travalicava l’esigenza di trovare metallo da fusione, e non poteva giustificare fino in fondo la demolizione di un repertorio statuario tanto pregiato. E allora, tutti quegli sfregi erano stati presumibilmente provocati con l’intento di annichilire delle figure che rimandavano a un mondo da cancellare, a una memoria da condannare: e va considerato che fra IV e V sec. d.C., e cioè all’epoca del naufragio dei bronzi di Punta del Serrone, ad essere abbattuti e sfregiati erano i simboli del paganesimo.
E ad abbattere, a sfregiare, erano i fanatici cristiani (come nel film «Agora» di Alejandro Amenabar): tutto quello che rappresentava l’universo pagano, i simboli sacri, le effigi di personalità culturali o politiche di una storia che non fosse cristiana, andava distrutto. E se è vero, come suggerito da alcuni studiosi, che i «Bronzi di Brindisi» derivavano in buona parte dal santuario di Apollo a Delfi, il cerchio parrebbe chiudersi. Sappiamo infatti come anche il sacrario delfico, alla fine del IV sec. d.C., conobbe la ferocia cristiana che travolse templi, simulacri di divinità e di personaggi illustri, all’indomani dei decreti anti-pagani dell’imperatore Teodosio, emanati poco dopo il 390 in attuazione del precedente Editto di Tessalonica del 380 d.C.
La furia dei cristiani provocò insomma la devastazione e il dileggio delle statue di dèi, filosofi, imperatori, mecenati, fanciulli, signore dell’élite greca e romana: vale a dire, il nucleo delle immagini riconoscibili fra i «Bronzi di Brindisi». Quei bronzi che, ora, campeggiano a ridosso del millenario porto brindisino, nello spazio loro dedicato all’interno del delizioso Museo archeologico «F. Ribezzo».