Il caso
Mille giorni in cella per omicidio ma era innocente. Risarcimento? Niente: «Non è ingiusta detenzione»
Il 77enne arrestato per la morte del genero. La motivazione: è stato imprudente. La difesa: andremo in Cassazione
BARI - È stato detenuto per 1.445 giorni, 1.052 in carcere e 393 agli arresti domiciliari, con l’accusa di aver ucciso il genero e poi distrutto il cadavere, bruciandolo, a ottobre del 2014. Condannato in primo grado, è stato assolto in appello e la sentenza di non colpevolezza è diventata irrevocabile ormai diversi anni fa, nel 2019. Ora i giudici hanno negato a Rocco La Gioia, 77enne di Valenzano, il risarcimento per ingiustizia detenzione ritenendo che i comportamenti «imprudenti» dell’imputato e le frasi interpretate all’epoca dagli inquirenti come «autoaccusatorie» avevano in qualche modo «contribuito, con una condotta gravemente colposa, a causare la sua detenzione, il che esclude il suo diritto ad essere indennizzato. E ciò - secondo la Corte d’Appello - a prescindere dall’esito assolutorio del giudizio penale». La difesa non ci sta e ricorre in Cassazione.
La storia inizia il 14 novembre 2014, quando La Gioia fu arrestato perché accusato di aver ucciso a Valenzano suo genero Alessandro Leopardi, 38enne, il 1 ottobre. Secondo la Procura barese il suocero aveva ammazzato il genero con una fucilata alle spalle. Il corpo sarebbe poi stato scaricato nelle campagne di Valenzano e qui dato alle fiamme presumibilmente per cancellare ogni traccia che potesse ricondurre all’assassino. Fu l’esame del dna su alcuni tessuti, e alcune successive intercettazioni ambientali, che convinsero gli investigatori a incriminare La Gioia. A ottobre 2017 la Corte di Assise condannò l’anziano a 16 anni di reclusione per omicidio e distruzione di cadavere. Un anno dopo, a ottobre 2018, il verdetto fu ribaltato dai giudici del secondo grado che assolsero La Gioia per non aver commesso il fatto e ne ordinarono l’immediata scarcerazione (sentenza confermata dalla Cassazione a dicembre 2019). Tornò libero, quindi, dopo quattro anni di detenzione, quasi tre dei quali trascorsi in cella.
Qualche mese dopo la difesa di La Gioia, l’avvocato Marianna Casadibari, ha chiesto un risarcimento di 516mila euro per l’ingiusta detenzione sofferta e per i danni che questa avrebbe causato alla vita dell’uomo, «sotto i profili dell’immagine, della salute e dell’attività lavorativa».
Il Ministero dell’Economia e Finanze si è opposto, evidenziando che «nel corso delle indagini l’imputato aveva tenuto condotte e fatto dichiarazioni idonee ad integrare la colpa grave preclusiva dell’invocato ristoro». I giudici hanno condiviso la tesi del Mef, evidenziando che i comportamenti dell’imputato avevano «determinato una situazione di allarme sociale, con conseguente doveroso intervento dell’autorità giudiziaria a tutela della comunità, ragionevolmente ritenuta in pericolo».
Alcune frasi in cui La Gioia sembrava parlare del delitto, cioè, avevano motivato il suo arresto. Sarebbe stato lui stesso, detto in altri termini, causa del suo mal ed è quello che - spiega la Corte - «caratterizza la colpa ostativa all’indennizzo e la differenzia dalla colpa penale». Dopo aver rigettato la richiesta del risarcimento, i giudici hanno anche condannato l’anziano a pagare al Ministero le spese legali.
Nei giorni scorsi è stato depositato in Cassazione il ricorso della difesa di La Gioia contro il provvedimento della Corte d’Appello barese che, secondo l’avvocato Casadibari, «fornisce una motivazione illogica e non congrua laddove ritiene che vi siano, nella condotta di La Gioia, gli elementi di colpa grave ostativi al diritto alla riparazione, omettendo di valutare in toto la condotta tenuta dal ricorrente, il quale con ogni mezzo ha cercato di discolparsi dalle gravi accuse (interrogatorio di garanzia, richiesta di riesame, interrogatori durante la fase degli indagini e durante il processo, consulenti tecnici, memorie a sua firma)»