teatro
«Tre viaggi» per vivere, morire e rinascere: al festival di drammaturgia di Molfetta
La storia di una coppia di brillanti imprenditori pugliesi
BARI - Ci vuole coraggio. A far cosa vi starete chiedendo. A debuttare nel festival di drammaturgia contemporanea Trame Contemporanee di venerdì diciassette novembre? Ma no. Cioè sì, anche, ma non è questo il punto. Ci vuole coraggio a dire le cose, a raccontarle, a fare le cose, a resistere, a credere, a non mollare mai, neanche di un millimetro. Ci vuole coraggio ad essere come pietra murgiana. Tosti, d’un pezzo, onesti. Marco Grossi, un’altra volta, mira con occhio aguzzo e centra il bersaglio. La sua nuova, coraggiosa sceneggiatura teatrale Tre viaggi (da un’idea del Club Imprese della Cultura delle province di Bari e Bat per una produzione Malalingua e Teatri di Bari), la cui messinscena è avvenuta nella serata dello scorso venerdì alla Cittadella degli artisti di Molfetta, narra di una coppia di brillanti imprenditori pugliesi (statv accort, il tutto è tratto da una storia vera, da quell’assurda realtà che abitiamo funambolicamente): moglie e marito, due che si amano, due figli, le loro schematiche dolcissime abitudini, i loro quadrati tenerissimi errori, un po’ di buffa ansia (i ritmi sono quelli che sono…), un po’ Woody e Annie, la loro umanità disarmante. Di un’azienda, la loro.
Un’impresa, siamo nel campo informatico, messa su al Sud. Perché? Perché, per fortuna, qualche cervello che decide di non scappare c’è ancora, qualche coccia illuminata che, nonostante gli sforzi (purtroppo immani), decide di costruirsi e costruire lavoro in Puglia, esiste e resiste. La sede aziendale? Di nuova fattura, perfetta: una cucina per chi sia costretto a restare sul posto di lavoro in pausa pranzo, svariati servizi per i dipendenti, un teatro! Addirittura un teatro! Purtroppo, nel paese d’origine dei due ce n’è solo uno ed è ormai chiuso da decenni. Insomma, una coppia che scoppia, due grandi lavoratori, due persone coraggiose, due piccoli Olivetti.
Sul palcoscenico, a raccontare la loro storia, una fra le più belle coppie di sempre: Marianna De Pinto e Marco Grossi. Moglie e marito, due che si amano, due figlie, due grandi personalità teatrali, due anime belle e nerborute, un po’ Franca Rame e Dario Fo, un po’ Sandra e Raimondo, ma baresi. Pare un gioco assonometrico, una proiezione da una realtà all’altra, dalla tecnica all’arte, dall’informatica al teatro. In scena, come qualche anno orsono nella quotidianità sconquassata di questi due imprenditori, tutta la crudezza dell’oggigiorno, tutte le incoerenze e le meschinerie del mercato del lavoro, la sfacciataggine del sazio, le lerce dinamiche, i giochi di potere, i buoni, smarriti, costretti ad indossare il mantello da fiera e a sbranare, «l’impero» che deve «crescere, crescere, crescere», i capricci di un vegliardo che più che Alberto da Giussano non poteva stimare, gli approfittatori, i delatori, i raccomandati, gli spifferi e così via. Tre viaggi in Brianza, tre viaggi nel Nord dei plutocrati, dei cliché, dell’implicito «wè terun!», degli «uomini grandi, ma come coriandoli», avrebbe detto Caparezza, per essere rilevati da una grande società, continuare a lavorare impeccabilmente quali soci di minoranza, crescere in modo esponenziale (tanto da inglobare competitor), infine essere costretti alle dimissioni. Perché? Non possiamo dirvelo. Forse un capriccio del «babbo» (l’industriale Micheletti).
Forse s’era accorto che questo «popolo di formiche» non era come l’intendeva, come se lo figurava, come stoltamente pensava che fosse. Che questo popolo di formiche ha cuore, garra, voglia di fare, idee, spirito. Caro Micheletti jr. (e ci riferiamo al figlio del proprietario della grande società brianzola, quello che di volta in volta accoglie i due pugliesi in assenza del padre, interpretato magistralmente da Pietro Naglieri, nel suo quotidiano travestimento, nel suo ingannarsi, nella sua bontà sepolta da anglofonia, sigle, Elon Musk, challenges contro il cambiamento climatico, impulsi incontrollati, retorica, cadenze da perfetto tecnocrate, efficienza ma non efficacia, goffaggine), caro Cavalier Gambardella (l’unico vero personaggio negativo in scena, abilmente interpretato da Augusto Masiello: il raccomandato per antonomasia, «la piovra», il manager senza idee, senza obiettivi, vuoto, ignorante, la cui unica preoccupazione è il profitto, nulla più; il mediocre al posto giusto al momento giusto), non l’avete ancora capito? È inutile che continuate a provarci, che scommettete sulla fallibilità della pazienza.
Questi due non s’arrendono, ci tengono per davvero, ci credono per davvero, vanno fino in fondo nelle cose. Anche al costo d’ammalarsi, che non è bene (ma li costringono…), anche al costo della nevrosi amara, del disturbo ossessivo compulsivo («questo documento, questo documento, questo documento»), della depressione. Si andrà a processo, nonostante i tempi estenuanti della giustizia. In particolare lui, il responsabile commerciale, il marito, non riusciva a mandar giù, ad andare oltre, ad accettare d’esser di fronte a qualcosa di più grande di lui, di loro. Ad accettare l’ingiustizia, pur di tornare alla pace. Ad accettare la vittoria di Golia, dei suoi soldi, dei suoi magheggi. Il finale è splendido. Se vincono? Diciamo che le cose non avvengono fra gli scranni di un tribunale. L’unica cosa che vi possiamo dire è che, finalmente, gli occhi s’aprono alla pioggia, ribaltando completamente il «potrebbe piovere» di Frankenstein Junior: un acquazzone liberatore, un temporale d’ordine e giustizia compiuta.
Grossi, ancora una volta giocando sapientemente con il comico per riprodurre adeguatamente quel riso nel pianto che è la vita, vince e avvince. Nell’esistenza, l’errore c’è, ma si supera. L’orrore c’è ma, volendo, lo si abbatte. Neanche una stonatura, bravi tutti. Pare anche che ci sia una terza scrittura in arrivo, nell’alveo scavato da Il colloquio ieri e da Tre viaggi oggi. Noi, al solito trepidanti, attendiamo di vederle prender forma, aperto il sipario.