la sentenza

Bari, 15 condanne per l'arsenale del clan Parisi scoperto al quartiere Japigia

Isabella Maselli

Pugno di ferro della Corte di Appello nei confronti dell’organizzazione mafiosa Parisi-Palermiti

BARI - La scoperta di una «cupa» nell’appartamento di un insospettabile nel quartiere Japigia, ha permesso non soltanto agli inquirenti dell’Antimafia di attribuire la paternità di armi e droga al clan Parisi-Palermiti e, in particolare, al gruppo capeggiato dall’ex numero due del clan Domenico Milella (poi diventato un collaboratore di giustizia) ma anche di ricostruire le rete degli spacciatori.

Una vicenda, risalente al 2014, ancora protagonista delle aule di giustizia. Nei giorni scorsi sono state depositate le motivazioni della sentenza con la quale alcuni mesi fa la Corte d’Appello di Bari aveva confermato 15 condanne (per sei imputati riducendo le pene inflitte) nei confronti dei sodali dell’organizzazione mafiosa accusati di aver custodito, fino al 2014, parte dell’arsenale del clan e la droga che veniva poi spacciata in città. Tra le condanne confermate c’è quella, a 4 anni di reclusione, al collaboratore di giustizia Domenico Milella, all’epoca dei fatti contestati ritenuto il braccio destro del capo clan Eugenio Palermiti. Leggermente ridotta, ma resta la più elevata, la condanna nei confronti del pregiudicato Sebastiano Ruggieri (da 17 anni e 10 mesi a 16 anni e 8 mesi di reclusione). Confermata la condanna a 9 anni per il fratello Michele.

C’è poi la condanna a 13 anni e 6 mesi per Alessandro Patruno, l’ex barista in pensione che custodiva quella «cupa» in una specie di vano tecnico trasformato in un mini appartamento, una «santabarbara» traboccante di fucili, pistole e munizione nascosta in un bilocale in cima ad un condominio in via Di Vagno. Lì i carabinieri trovarono più di 40 armi, comuni e da guerra, tra cui kalashnikov, mitragliatrici, fucili e pistole, migliaia di munizioni, oltre a 10 kg di cocaina.

L’indagine, coordinata dai pm della Dda Ettore Cardinali e Federico Perrone Capano, portò nel dicembre 2019 all’arresto di una decina di persone e per 15 di loro si è appena concluso il processo d’appello. Ci sono anche i pusher dell’organizzazione, tra i quali il nipote del capo clan, Antonino Palermiti (condannato a 6 anni e 8 mesi).

Secondo i giudici Milella, all’epoca ai vertici del clan, gestiva il traffico di droga, occupandosi delle forniture di cocaina che poi cedeva agli spacciatori, «garantendosi preventivamente il guadagno attraverso la previsione di un punto ogni 100 grammi».

Anche mentre era agli arresti domiciliari, «manteneva contatti continuativi con i sodali, che con cadenza ravvicinata si recavano a fargli visita per riferire sulla vita dell’associazione e prendere istruzioni». Eppure le sue dichiarazioni, che hanno permesso di aprire decine di indagini sulla mafia di Japigia, non sempre sono ritenute attendibili. In alcuni casi avrebbe «edulcorato» i suoi racconti per tentare di scagionare amici e parenti. Come nel caso del cognato, Sebastiano Ruggieri, definito dal pentito «estraneo all’organizzazione». Secondo la Corte, «le dichiarazioni sbilanciate di Milella sono influenzate dal rapporto di affinità. Circostanza che - precisano però i giudici - non ne inficia la complessiva attendibilità».

C’è poi tutto un capitolo della sentenza dedicato al nipote del capo clan. Di Antonino Palermiti i giudici sottolineano che, nonostante non avesse avuto un rito formale di affiliazione (anche perché quello che doveva essere il suo padrino era stato ucciso in un agguato, inaugurando la lunga stagione di sangue nel quartiere, nella primavera 2017), «era ben inserito nel contesto associativo mafioso».

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