L'analisi

Se la guerra in Israele mette tutti d’accordo

Leonardo Petrocelli

Lo scontro che infiamma la Striscia di Gaza è di fatto l’unico elemento di raccordo fra tutti i partiti che compongono la variegata compagine del governo tecnico-politico guidato da Mario Draghi

Ciò che la politica quotidiana divide, Israele unisce. Lo scontro che infiamma la Striscia di Gaza è di fatto l’unico elemento di raccordo fra tutti i partiti che compongono la variegata compagine del governo tecnico-politico guidato da Mario Draghi. Divisi su tutto: dal coprifuoco, alle aperture, agli sbarchi, fino alle misure economiche e - quanto agli Esteri - ai giudizi sulla Russia e sulle diverse amministrazioni americane. Ogni possibile elemento di confronto è motivo di spaccatura, di scintilla, di polemica come naturale in un «cordata» che di fatto tiene tutti dentro, dal primo dei sovranisti all’ultimo dei progressisti.
La prima occasione per vederli (quasi) tutti sullo stesso palco, convintamente gli uni accanto agli altri, allineati e coperti, l’ha offerta proprio la manifestazione di solidarietà a Israele di qualche giorno fa. Certo, ognuno ci arrivava con i suoi distinguo: Enrico Letta, segretario del Partito democratico, armato di mille precisazioni («quello che sta succedendo però va oltre la legittima difesa, cessi subito il fuoco»); Matteo Salvini, leader leghista, con tutta la carica del suo entusiasmo senza mediazioni; il Movimento 5 Stelle inviando, in modo poco politico ma più istituzionale, la sindaca romana Virginia Raggi.

Di fatto, però, i pesi massimi sono tutti lì e l’effetto è spaesante perché ogni cosa si muove in perfetto controcanto rispetto allo «scannatoio quotidiano» che negli ultimi giorni ha ripreso quota dappertutto, forse per necessità di compensazione. Divisi su tutto tranne che su Israele, dunque. E non si tratta, semplicemente, come ha sostenuto qualcuno, di un «annullamento dei palestinesi e delle loro ragioni» nel dibattito politico italiano. Tra l’altro una delle principali controindicazioni dell’uniformità del posizionamento sta nella potenza che si regala a chi nuota controcorrente: quanto tutti dicono la stessa cosa, se uno, per quanto defilato, ne dice una differente è come se gettasse un cucchiaino in un salone vuoto. Un rumore del diavolo.

Vale per la deputata americana dem Alexandria-Ocasio Cortez che ha scatenato un putiferio con la sua uscita tranciante («Israele non è una democrazia») e anche, in casa nostra, per l’ex premier Massimo D’Alema. Quando quest’ultimo, con ben altri toni, si rivolge «all’amico Letta» per ricordargli che c’è «qualcosa che non funziona», «che c’è una mancanza di verità» nell’affrontare la tragedia, rievoca una sensibilità della sinistra che da anni è andata a nascondersi sotto coperta. È forse sopravvissuta - diradata - nelle piazze, nelle scuole, nelle strade dove ancora qualcuno con i calzoni corti è disposto ad agitarsi, ma in Aula non c’è traccia di quel filo rosso che legò - a vario titolo e in modi diversi, a volte anche spericolati - Moro, Berlinguer e Craxi, tanto per fare tre nomi non proprio sovrapponibili.

Anche a destra, dove pure le sfumature sono rese più complesse da ragioni storiche, sopravvivevano sensibilità diverse che oggi sembrano più che altro sottoculture underground, mentre spadroneggia indisturbato un occidentalismo fallaciano di bassa lega. Il risultato di tutto questo - oltre ogni giudizio di merito - è la morte civile della «complessità», di quell’arte raffinata e un po’ noiosa della politica che mette in bilancio anche verità scomode («quelle che non si possono dire», per citare sempre D’Alema) e gioca su mediazioni sottili. Logoranti.

La reductio ad unum è sempre un impoverimento. E l’Occidente, con l’Europa in testa, più di ogni altro luogo-non luogo della Terra sconta questo andazzo da bottegaio: tutti pronti a farsi venire le occhiaie per discettare notte e giorno di percentuali del deficit (sarà lo 0,1 o 0,2%?), controparte finanziaria del coprifuoco (alle 23 o alle 24?), e nessuno capace di attivare un ragionamento che vada oltre le semplificazioni da palcoscenico. Vale per Gaza, per il destino dell’Ue, per il libero mercato in crisi. Da che parte penda la bilancia importa poco. Non servono (solo) bandiere. Servono verità. Anche quelle che non si possono dire.

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