L'editoriale

L’alfa e l’omega di un duello senza il colpo del k.o.

Giuseppe De Tomaso

La pandemia ancora in atto rende quanto meno eccentrica e incomprensibile l’ipotesi di aprire ufficialmente una crisi di governo con tutte le conseguenze del caso

Una volta, in Italia, era sufficiente un’intervista alquanto malandrina da parte di un leader di maggioranza per dare il benservito al presidente del Consiglio in carica. Stavolta quel copione non pare destinato ad essere ripescato, non solo perché l’eccezionalità del momento - la pandemia ancora in atto - rende quanto meno eccentrica e incomprensibile l’ipotesi di aprire ufficialmente una crisi di governo con tutte le conseguenze del caso (rallentamenti decisionali, stupore in Europa, Recovery Plan a rischio...), quanto perché nessuno tra i duellanti, a cominciare dall’assalitore di Palazzo Chigi, possiede l’arma risolutiva per costringere alla resa l’avversario.

L’obiettivo di Matteo Renzi è chiaro: sfrattare Giuseppe Conte. Punto. Se non fosse così, l’ex rottamatore avrebbe accettato da un pezzo la soluzione di compromesso (rimpasto) più collaudata per conflitti simili, dato che sul piano dei contenuti, il capo del governo ha sùbito accettato le principali richieste di Italia Viva: dallo stop alla task force per gli aiuti europei al raddoppio dei soldi stanziati per la sanità. Se non lo ha fatto, se non ha accolto queste aperture, significa che il senatore di Rignano non si accontenta del Conte-ter, ma punta a una nuova fase con un nuovo inquilino a Palazzo Chigi.

E però Renzi non dispone, come sopra accennato, della carta decisiva per prepensionare il professore pugliese. Per una ragione assai semplice. Renzi non può consentirsi di rischiare il voto anticipato. È vero che sono in pochissimi, in tutto il parlamento, ad augurarsi la fine anticipata della legislatura, dal momento che molti uscenti non verrebbero rieletti, vuoi per gli umori volatili dei votanti, vuoi per la drastica rasoiata al numero di deputati e senatori, ma è pur vero che il fantasma dello scioglimento delle Camere aleggia sempre sullo sfondo di ogni crisi e che, fino a quando questa opzione potrà essere esercitata dal capo dello Stato, nessuno, fra i possibili danneggiati, può dormire sonni tranquilli.

I penultimatum di Renzi sono figli di questa situazione. Egli è come un pugile privo del colpo finale, quello del ko. Ripetiamo. Diversa sarebbe la storia se egli potesse affrontare senza particolari patemi la contesa elettorale. In tal caso, la crisi ufficiale sarebbe stata aperta da mesi. Nonostante il Covid.

Allora, perché Renzi, che tutto è tranne che uno sprovveduto, continua a bombardare il quartier generale contiano, pur sapendo che non potrà mai sperare di vedere sventolare, colà, la bandiera bianca del comandante in campo? Forse perché si è reso conto di due cose: la sua offensiva contro Conte non dispiace a cospicui settori di Pd e M5S, anche se costoro non amano esporsi più di tanto; a furia di sconvolgere il palcoscenico politico, potrebbero cambiare la trama e i protagonisti della rappresentazione, con probabili benefìci per lui, Renzi, cui evidentemente va stretto lo status di senatore semplice: un incarico nazionale o internazionale di sicuro allevierebbe la sua insoddisfazione permanente.

E veniamo a Conte. Il presidente del Consiglio sa che nel momento in cui dovesse cedere all’assedio renziano e presentarsi al Quirinale per mollare la presa, comincerebbe per lui un calvario che manco nelle sacre scritture. Partirebbe il gioco delle pregiudiziali, dei colpi bassi, degli sgambetti e delle imboscate più o meno sotterranee. Difficilmente, in caso di dimissioni formali, Conte avrebbe il placet renziano per restare alla guida del governo. Di qui la sua resistenza a ratificare la crisi, invocata o evocata un giorno sì e l’altra pure dalla pattuglia renziana.

E comunque. Conte è abile, ma anche fortunato. È fortunato perché Renzi e i renziani, nonostante le numerose interviste, non sono riusciti a trovare un argomento chiave su cui inchiodare il governo. Troppe cose insieme, quando è noto che, per essere mediaticamente e politicamente efficaci, è fondamentale agitare un solo vessillo, non due, tre, quattro stendardi. Se si esagera con la lista delle insofferenze o delle richieste, si corre il rischio che l’opinione pubblica si confonda, non capisca più nulla o che circoscriva l’intera vicenda come la classica offensiva per ottenere più posti e prebende di governo e sottogoverno. Specie ora che si profila una stagione sostanziosa sul versante dei quattrini da spendere (i 209 miliardi, estensibili fino a 300 miliardi) del Recovery Plan.

Conclusione. Renzi deve contare almeno fino a cento prima di decidere di togliere la spina al governo. Conte deve resistere fino all’ultimo per non correre il rischio di perdere la scrivania più cruciale del Paese. Conte può permettersi di staccare per ultimo il piede dal freno perché sa che, alla fine, la prospettiva, pur minima, del voto anticipato, prospettiva invisa a quasi tutti in Aula, potrebbe prolungargli la premiership perlomeno fino a luglio, fino a quando cioè sarà possibile sciogliere in anticipo le Camere. Soltanto dopo, con il semestre bianco (Mattarella non potrà mandare tutti a casa) potrebbe iniziare un’altra storia.

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