Il commento

La società asettica fondata sulla distanza

Michele Partipilo

Barbieri, parrucchieri, negozianti sono al lavoro per ripulire e sanificare i locali dopo oltre due mesi di stop. Sembra come dopo un’alluvione o un terremoto, quando si mettono da parte il fango e le macerie e si prova a ricominciare

Barbieri, parrucchieri, negozianti sono al lavoro per ripulire e sanificare i locali dopo oltre due mesi di stop. Lavano, detergono, spostano sedie e scaffali per fare largo alla «distanza sociale». Sembra come dopo un’alluvione o un terremoto, quando si mettono da parte il fango e le macerie e si prova a ricominciare. Solo che stavolta è un po’ diverso, perché tutti sappiamo che occorrerà lavorare il doppio per guadagnare la metà. Per forza di cose saranno allungati gli orari di apertura e sacrificati i giorni di riposo, ma il giro di affari resterà ben al di sotto dei livelli ante distanza sociale.

Ma non è questo che preoccupa e che rende cupi gli animi. È che dovremo abituarci a convivere ancora per molti mesi con il virus. È come se ci trovassimo di fronte a un terremoto o a un’alluvione continui. Una condizione che scuote nel profondo, che in un colpo solo fa saltare tutte le sicurezze. Siamo nel mezzo di un passaggio epocale: dalla società liquida – secondo la fortunata definizione di Bauman – alla società asettica, cioè in cui in ogni aspetto della vita è condizionato dalla lotta al contagio. Distanza sociale, mascherine e tamponi sono la nuova cifra della contemporaneità.

Siamo passati da un vivere frenetico, scandito dai ritmi del fare, a un vivere instabile, più incline a segnare il ritmo dell’essere. Quei riferimenti etici e materiali più che sufficienti per tirare a campare sono crollati di schianto. La scienza e l’economia hanno mostrato le loro fragilità, la faccia nascosta cui non avevamo mai pensato. «Non sappiamo», «non ci sono evidenze», «è la prima volta che accade», è il coro continuo degli scienziati che si stanno occupando del virus. Fanno eco gli economisti, in grado solo di sfornare previsioni catastrofiche di fronte alle aziende che producono al 20 per cento, agli incassi che sono svaniti, ai trasporti quasi fermi.

Si invoca l’aiuto dello Stato, ultima certezza contro le paure ancestrali tornate ad affiorare come i papaveri al sole di maggio. Soldi, aiuti, investimenti, bramati per ridarsi una speranza. Il governo ha varato un piano da 55 miliardi già ampiamente criticato, perché dà poco a tutti. In realtà avremmo preferito una bacchetta magica. Nessuno critica il governo per la vera ragione per cui sarebbe logico: quei soldi e tutti gli altri che arriveranno sono debiti caricati sulle spalle di figli, nipoti e pronipoti. Il partito della spesa pubblica è più scatenato che mai e non gli par vero di aver trovato un motivo inoppugnabile per scavalcare ogni rigore di bilancio. Lasceremo a chi viene dopo una società di morosi, peggiorata nella tasca e nell’animo, resa più cinica ed egoista dalla riscoperta di antiche paure.

Se la scienza e la tecnica vacillano, a chi affidarsi? Verrebbe da dire alla religione, da sempre ancora di salvezza contro le inquietudini esistenziali. Ma la religione – soprattutto quella cattolica, maggioritaria in Italia – sembra ormai debba occuparsi solo del benessere del corpo. Eppure l’insecuritas, il malessere che ci riporta al centro della caducità del mondo, viene prima della carne, si acquatta nella mente e scava come un tarlo nelle sicurezze su cui avevamo fondato la nostra vita.
Anche la cultura, altro strumento utilizzato per combattere il senso profondo di precarietà, ha le polveri bagnate. Negli ultime tempi si era ridotta a mercato di sé stessa. Mostre, convegni, festival creati e apprezzati più per il movimento economico che innescavano che per l’effetto nelle nostre teste. Negli oltre due mesi passati da reclusi in casa si sono sprecate le lodi al tempo ritrovato per leggere, le librerie sono stati i primi esercizi a riaprire, il mondo digitale è sceso in campo mettendo a disposizione materiali eccezionali come concerti, giri virtuali di musei, storie di inestimabili capolavori dell’arte. Così saremmo diventati tutti migliori. Può darsi, ma intanto abbiamo preso a ignorare le persone ammazzate dal virus. Duecento- trecento morti al giorno non trovano più spazio nei titoli sui giornali. Si chiama cinismo mediatico, oppure ipocrisia dialettica quando preferiamo enfatizzare il numero dei guariti: «mai così tanti» è il commento che passa da un Tg a un talk show. Dimenticando che per i malati esistono due sole possibilità: o guariscono o soccombono. Ma nella frenesia di ripartire, di infondere un ottimismo idiota, si dimentica ogni buon senso.

Forza ora, guanti, mascherine e igienizzante e mettiamoci al lavoro. Ma prima di sanificare negozi e sale da barba occorrerebbe fare i conti con il risveglio di ataviche paure. La società asettica non può ignorare i contagi dell’anima.


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