La riflessione
Tutti contro tutti
Lo spettacolo a cui stiamo assistendo in questi giorni è a dir poco sconcertante, visto che in ballo c’è la salute di tutti noi
Sembrava che l’emergenza Coronavirus avesse prodotto un “effetto camomilla” sulla guerra permanente che affligge i poteri dello Stato, anche a causa di una sovrapposizione di funzioni che non giova certo a una gestione limpida e certa della cosa pubblica. Passato invece un primo e comprensibile attimo di disorientamento è ripresa una spiacevole danza – tanto più deprecabile considerata la gravità del momento – nella quale organi centrali e periferici cercano a turno di guadagnarsi la scena.
Tutti contro tutti, insomma, nonostante lo spettro del Covid-19. Situazione certo dovuta ad un altro virus, quello del protagonismo, che affligge politici ed amministratori pubblici, ma resa possibile (o quanto meno incrementata) da quell’incerta – per usare un eufemismo – distribuzione delle competenze che costituisce un imprinting della nostra macchina politico-amministrativa. È forse inutile sottolineare gli effetti nocivi che la frammentazione disordinata del potere, il suo decentramento caotico provoca. Ed invece, lo spettacolo a cui stiamo assistendo in questi giorni è a dir poco sconcertante, visto che in ballo c’è la salute di tutti noi.
Un estenuante braccio di ferro tra centro e periferia, tra governo di Roma e governatori regionali, con continui rimpalli di responsabilità e risposte antitetiche alle medesime situazioni, del quale si sarebbe volentieri fatto a meno in un momento come questo che richiede – per intuibili ragioni – una gestione unitaria per poter contrastare in maniera efficacia un’emergenza sanitaria senza precedenti che ha sconvolto abitudini e attività. Non è materia per localismi, insomma, perché il coronavirus non ha preferenze di campanile e non veste casacche, non è un club calcistico per cui tifare o da fischiare.
E invece no, ciascuno sembra pronto a mostrare i muscoli, a rivendicare uno spicchio di autorità.
Emblematico è il caso di edicole e librerie. La normativa nazionale – avente forza di legge – prevede che le edicole, in quanto servizio essenziale, debbano rimanere aperte al fine di garantire il diritto (costituzionale) all’informazione, che non può essere appannaggio esclusivo di internet e tv, tanto più in una condizione di straordinarietà. Sono strumenti diversi, con differenti target e differente peso. Si dimentica troppo spesso che sono i quotidiani a dettare l’agenda del giorno dopo, e non viceversa. Sono un anello fondamentale della catena, che non può mai venir meno. Qualche sindaco invece, in maniera assai estemporanea, decide di chiuderle la domenica pensando evidentemente che un’ordinanza valga di più di una legge dello Stato e possa liberamente derogarvi. E ancora (citando a memoria): jogging a 200 metri, anzi no; supermercati aperti la domenica, anzi no; librerie aperte, anzi no, libri solo negli ipermercati (con buona pace di chi desidera andare oltre la letteratura mainstream); cartolerie aperte, anzi no, quaderni e matite solo nella grande distribuzione.
Uno stato confusionale generale, insomma, che chiaramente non rassicura gli italiani – già largamente provati da una quarantena fino a poco tempo fa inimmaginabile – in ordine a ciò che si può e ciò che non si può fare.
Il momento richiederebbe certezze. E non solo il momento, per la verità.
La chiarezza delle regole, la loro certezza, sono fondamentali perché una società funzioni. L’Italia invece vi è allergica. E questa costituisce una delle tare del nostro ordinamento, visto il proliferare di leggi, leggine, regolamenti e via discorrendo che spesso si stratificano divenendo incomprensibili persino ai loro stessi autori. Non è aliena da responsabilità la sciagurata riforma del Titolo V della Costituzione del 2001, che ha ridisegnato i rapporti tra Stato e Regioni e che ha avuto la capacità di ingenerare una fitta nebbia, specie sul fronte delle competenze concorrenti, come dimostra il moltiplicarsi dei conflitti di attribuzione sollevati innanzi alla Corte costituzionale. Possono davvero settori come la sanità essere amministrati – peraltro con criteri che ben conosciamo – a livello locale in nome di un’illusoria aziendalizzazione succube della politica? In momenti come questi tutti i nodi vengono al pettine.
La vicenda assume una portata vitale rispetto alle scelte cruciali per sconfiggere il coronavirus. Negli ultimi giorni, mentre regioni come la Lombardia e la Campania hanno deciso di essere inflessibili nell’imporre il distanziamento sociale, altre come il Veneto e la Liguria hanno inaugurato un nuovo corso più soft. È ovvio che tutto ciò rischia di vanificare il buon esito della lotta contro questo nemico invisibile. Una lotta che non può che essere condotta a livello nazionale (anzi, globale).
Solo a livello centrale, grazie al supporto degli esperti, si può decidere quale sia la linea più adeguata per opporsi al virus. E, soprattutto, occorre una regia unica. Mettendo da parte anche gli strali delle opposizioni che, con scarso senso delle istituzioni e poco amore per il Paese, non riescono a sottrarsi alla tentazione della polemica. Non si tratta di una questione condominiale. Sembra una verità elementare, e invece evidentemente non lo è. Il fascino irresistibile della baruffa, purtroppo, sembra avere la meglio.