Il punto

Ad alto rischio la privacy delle persone ammalate

Michele Partipilo

Il Coronavirus, oltre a mettere in crisi l’economia, rischia di mandare in frantumi la vita intima delle persone, cioè quel diritto alla privacy rimasto unico scudo all’invasione delle tecnologie nella sfera privata. L’attacco arriva su diversi fronti

Il Coronavirus, oltre a mettere in crisi l’economia, rischia di mandare in frantumi la vita intima delle persone, cioè quel diritto alla privacy rimasto unico scudo all’invasione delle tecnologie nella sfera privata. L’attacco arriva su diversi fronti.
Prima di tutto occorre ricordare che i dati personali relativi allo stato di salute sono considerati anche dal recente Regolamento europeo meritevoli di una tutela rafforzata. Vengono infatti definiti come «dati particolari» il cui trattamento è in linea generale vietato, salvo alcune eccezioni, fra cui il fine giornalistico. Non si tratta però di una deroga totale e incondizionata. Il giornalista per raccontare del Coronavirus, come per altre notizie riguardanti la salute delle persone, deve rispettare alcuni vincoli precisi che fungono anche da principale freno alla diffusione di fake news. Si tratta di due criteri contenuti nell’articolo 137 del Codice sulla privacy e ribaditi nel Testo unico della deontologia del giornalista: sono il diritto di cronaca e l’essenzialità dell’informazione. Il giornalista ha dunque la libertà di trattare tutti i dati personali riguardanti il Coronavirus purché siano veri, di interesse pubblico e siano diffusi in maniera da non risultare lesivi della dignità degli interessati. A questi tre limiti, si aggiunge l’essenzialità dell’informazione e cioè l’obbligo per il cronista di raccontare solo i dettagli che risultino necessari a comprendere i fatti.

Nel caso del Coronavirus, come in generale per tutte le notizie a carattere sanitario, un elemento ritenuto non essenziale per la notizia è il nome del protagonista. E fino a oggi la stragrande maggioranza delle infinite cronache sul virus ha rispettato il criterio dell’anonimato, eccetto quei casi in cui siano stati gli stessi protagonisti a rendere pubbliche le loro condizioni di salute - per tutti valga l’esempio dell’assessore lombardo risultato contagiato - o di quei pazienti che, dopo aver sconfitto l’infezione, hanno scelto di rilasciare interviste e dichiarazioni. Al contrario, quando sono stati forniti dati che seppur indirettamente hanno portato a individuare pazienti dei quali si era taciuto il nome, questi sono stati bersagliati da insulti e offese attraverso i social, esponendoli anche a pesanti discriminazioni nella vita fisica. Insomma diffondere il nome di un contagiato equivale a dargli la patente di untore.

In taluni casi, però, diffondere i nomi è necessario se, per esempio, si tratta di soggetti pubblici che per la loro attività abbiano incontrato più persone. Renderli identificabili specificando soprattutto il ruolo pubblico svolto – un magistrato, un politico, un medico, un religioso, un docente – può rivelarsi decisivo per individuare altri soggetti a rischio e spezzare così la catena del probabile contagio. È un’operazione però che non può gravare sulle spalle dei giornalisti. Spetta alle autorità che hanno assunto il controllo della situazione sanitaria farsi carico della responsabilità di violare l’anonimato e quindi il diritto alla privacy dei p. Se così non fosse, i giornalisti si troverebbero a svolgere un compito improprio e forse anche a commettere un grave illecito.

In questa direzione vanno anche le indicazioni del Garante per la privacy, ancorché non riferite direttamente al mondo giornalistico. Lunedì ha emesso un comunicato dai toni perentori nei confronti di titolari di aziende o di esercizi pubblici ribadendo il divieto di raccogliere dati circa lo stato di salute di dipendenti o clienti: «L’accertamento e la raccolta di informazioni relative ai sintomi tipici del Coronavirus e alle informazioni sui recenti spostamenti di ogni individuo spettano agli operatori sanitari e al sistema attivato dalla protezione civile».
In aggiunta va considerato che l’Organizzazione mondiale della sanità (Oms), ha diffuso un documento-guida rivolto a istituzioni governative, media, e organizzazioni che si stanno occupando del virus, con lo scopo di ricordare come le parole utilizzate possano consolidare stereotipi, rafforzare associazioni scorrette tra malattia e altri fattori, generare preoccupazione e colpevolizzare coloro che sono stati contagiati. E allo stesso tempo provocare resistenza verso controlli, test di screeningo isolamento.

La difesa dell’anonimato diventa ancora più importante se si considera poi che un dato immesso online diventa incancellabile. Per cui scrivere oggi che il signor X è stato contagiato significa condannarlo per sempre allo stigma della malattia, perché anche fra 10 anni, chi andrà a fare delle ricerche potrà individuare quella notizia e utilizzarla nei modi più diversi. Con il paradosso che il Coronavirus passa, ma chi è entrato come malato nella Rete non guarirà mai. Non aggiungiamo un’infezione a un’altra infezione.

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