L'analisi
Breve quaresima delle province già tira aria di resurrezione
«Fino a qualche anno fa, la reputazione delle Province era più logorata di quella di un allenatore di calcio dopo una retrocessione in serie B. Anzi, di più»
È un Paese davvero irredimibile il nostro. Non si fa in tempo a tagliare (si fa per dire) qualche ramo secco che il fronte trasversale dei nostalgici o dei pentiti s’ingrossi come un fiume in piena. Fino a qualche anno fa, la reputazione delle Province era più logorata di quella di un allenatore di calcio dopo una retrocessione in serie B. Anzi, di più. Le Province erano il simbolo dell’Italia sprecona, parassitaria e inconcludente. Non trovavi un avvocato difensore, per la causa di questo ente locale, manco se lo pagavi come Cristiano Ronaldo. In effetti era davvero arduo sostenere le ragioni di un’istituzione (la Provincia, appunto) che avrebbe dovuto passare a miglior vita all’indomani della nascita delle Regioni (1970). Almeno, erano questi i patti alla vigilia del parto degli staterelli cui lo Stato centrale doveva assegnare un bel carico di competenze.
È andata come è andata. Il principio di accumulazione ha oscurato il precetto della sostituzione. E non appena le Regioni hanno iniziato a fare il bello e cattivo tempo, aggiungendo ai compiti statutari di legislazione, programmazione e coordinamento anche le mansioni amministrative (più vantaggiose sul piano politico-clientelare) che avrebbero dovuto essere affidate ai Comuni e, ancora per poco tempo, alle Province, in pochi hanno avuto da obiettare a chi ha suggerito di ricorrere al rasoio per eliminare l’ente intermedio.
Ma, si sa, in Italia, le riforme andrebbero frenate non perché siano malvage e sconvenienti, bensì perché, quasi sempre, sfociano in beffarde controriforme. Infatti, dall’eutanasia delle Province intese come organi elettivi di primo livello (investitura popolare dei vertici) si è passati alla proliferazione delle città metropolitane e alla sopravvivenza delle restanti Province come organi elettivi di secondo livello (investitura indiretta della presidenza).
Adesso neppure questo compromesso è ritenuto sufficiente. Si va allungando la folla dei devoti che pregano per la resurrezione definitiva delle Province (dopo una breve quaresima), con il ritorno all’elezione diretta di presidenti e consiglieri. La motivazione? Alcuni servizi pubblici non vengono più garantiti come una volta. E allora? Potrebbero provvedere Regioni e Comuni a rimediare. Macché, meglio tornare al passato, alla moltiplicazione dei pani e dei pesci per meglio soddisfare la voglia di distribuire prebende a famigli e affiliati vari. Che sia questo il retropensiero prevalente, lo dimostra, per altri versi e su altri fronti, l’orgia di liste e listarelle che si presentano alle comunali, cui fa seguito il naturale aumento dei rappresentanti di lista.
Insomma, il mestiere del politico, nonostante tutto, rimane sempre attraente, anche se relegato nel sottobosco o nel retrobottega. Di conseguenza, riaprire le Province giova all’obiettivo di tentare la scalata sociale (in verità proibitiva in molte attvità private). Che, poi, la riapertura non giovi alle casse pubbliche, al bilancio dello Stato e al portafogli dei contribuenti, poco importa. Meglio gratificare piccole minoranze organizzate che soddisfare grandi maggioranze disorganizzate.
Se fossimo al posto di Angela Merkel o di Mario Draghi balzeremmo sulla sedia nel leggere, ogni mattina, la rassegna stampa proveniente dall’Italia. Stentiamo a credere che i due riescano a controllarsi o a conservare l’aplomb che si richiede al loro ruolo. Perché la prima, istintiva, reazione, a Bruxelles e in altre capitali europee, nell’apprendere che in Italia è allo studio un nuovo piano di rinascita (dopo quello della P2 gelliana), stavolta teso a ripescare le Province, sarebbe quella di invitare il Belpaese a lasciare in fretta e furia l’Unione Europea, altro che corteggiarlo perché rimanga. Essendo, tutto sommato, persone responsabili, la Merkel e colleghi tendono a sopprimere in un nanosecondo questi cattivi pensieri, ma non dev’essere facile neppure per loro, che alle stravaganze di chi considera i soldi dei cittadini come la moderna evoluzione del pozzo di San Patrizio devono essere abituati.
La Lega è affezionata alle Province, più che alle Regioni. Gran parte del suo personale politico ha fatto tirocinio e praticantato negli enti poi salvati dal no (2016) al referendum sulla revisione costituzionale disegnata da Matteo Renzi. Ma, oggi, non è solo la Lega a provare nostalgia per il piccolo mondo antico legato all’istituzione Provincia. Fatta eccezione per il M5S, la cui contrarietà alla riemersione, sembra, almeno per ora, granitica, anche gli altri partiti sognano la rivincita in grande stile dell’ente (parzialmente) rimosso.
E poi ci si chiede perché il Giappone offra, agli investitori e ai risparmiatori, più garanzie dell’Italia, nonostante un debito pubblico di gran lunga superiore. La risposta si chiama credibilità, unita a senso di responsabilità. Che credibilità può sperare di mantenere una nazione orientata a sconfessare persino la mezza riforma (come quella delle Province) varata solo pochi anni addietro?
Ma a questo orecchio quasi nessuno intende prestare ascolto.