L'analisi

Se la presidenza della Camera non è sinonimo di foglia di Fico

Giuseppe De Tomaso

«Adesso è il turno di Roberto Fico, giudicato il più radicale tra i grillini, il dirigente più vicino ai temi chiave della sinistra, quello più lontano dai convincimenti di Matteo Salvini e amici, specie in materia di immigrazione e solidarietà sociale»

Un tempo chi presiedeva il Senato o la Camera era la persona più fortunata e tranquilla del mondo. Due cariche di grande prestigio (la seconda e la terza dello Stato, dopo la presidenza della Repubblica). Due scranni forieri di onori e riconoscimenti. Due piedistalli a prova di sgambetti politici, essendo legati, come l’edera al muro, alla durata dell’intera legislatura. Altro che «bombe» ministeriali, altro che poltrone in bilico per crisi di governo più frequenti delle «bombe d’acqua» estive. Chi si aggiudicava la guida di uno dei rami del Parlamento poteva ritenersi più appagato di un vincitore, in milioni, al Superenalotto.
Ma sarà stato per l’effetto camomilla causato da un ufficio simile a una sinecura più che a un luogo di fatica, sarà stato per altro, sta di fatto che, a partire da qualche lustro, soprattutto i capi di Montecitorio sembrano tutti reduci da una bevuta di sostanze eccitanti, anziché calmanti.

Da presidente della Camera, il rifondazionista Fausto Bertinotti diede a Romano Prodi più grattacapi del numero uno della Bundesbank. E anche Pierferdinando Casini, sempre dallo stessa Camera con vista, complicò spesso la vita a Silvio Berlusconi. Per non dire di Gianfranco Fini che, dopo averne ostacolato i piani, da direttore dei lavori parlamentari ruppe in modo platreale con il Cavaliere. E pure Laura Boldrini non è stata tenera con la sua maggioranza di centrosinistra. Così come aveva fatto un’altra donna, l’allora leghista Irene Pivetti, nei confronti del primo governo Berlusconi (1994).
Insomma. La presidenza della Camera tutto produce tranne che effetti soporiferi sui suoi «felici», ma impazienti, titolari.
Adesso è il turno di Roberto Fico, giudicato il più radicale tra i grillini, il dirigente più vicino ai temi chiave della sinistra, quello più lontano dai convincimenti di Matteo Salvini e amici, specie in materia di immigrazione e solidarietà sociale.
I retroscenisti assicurano che Luigi Di Maio fosse ben lieto di poter piazzare il suo più insidioso concorrente interno (dopo Alessadro Di Battista, che però si era defilato spontaneamente preferendo andare alla riscoperta dell’America) al vertice dell’assemblea di Montecitorio. Colà Fico avrebbe, anche per ragioni istituzionali, dovuto ridurre il numero e il volume delle sue esternazioni. Il che avrebbe rasserenato il vicepremier pentastellato, insidiato - sul piano della visibilità - dall’instancabilità mediatica del suo parigrado leghista.
Ma quando pareva che la strategia di Di Maio stesse producendo i frutti sperati, ecco che rispunta la sindrome di Montecitorio. Fico non si accontenta più di fare il notaio, sia pure altamente riverito, e decide di dire la sua, che quasi sempre è diversa da quella di Di Maio oltre che, si capisce, da quella di Salvini.
Ora. I più maliziosi non attribuiscono grande importanza al fatto che Fico tenda a smarcarsi da Di Maio, così come vorrebbe fare Paulo Dybala rispetto a Cristiano Ronaldo. I più dietrologi tra gli esegeti scommettono su un gioco delle parti tra i due dirigenti stellati, scommettono su due linee distinte, ma concordate, perché nessuno dei due big vorrebbe perdere voti a beneficio di altri partiti. Soprattutto a Di Maio, per esempio, farebbe comodo che un nome come Fico curasse e garantisse il versante di sinistra dell’elettorato.
Può darsi. Ma, allo stato (come si dice in politichese), Fico costituisce, o così sembra, una spina nel fianco per il ministro del Lavoro e dello Sviluppo Economico. La qual cosa induce Di Maio a un supplemento di lavori forzati per conciliare le tesi degli irriducibili tipo Fico con gli argomenti degli irremovibili tipo Salvini. Non solo. Di Maio deve tenere l’orecchio sveglio anche in direzione degli Usa da dove, ogni tanto, giungono i twitter di Di Battista, twitter che di sicuro non si rifanno alle proverbiali sfumature lessicali di un leader doroteo come il dc veneto Mariano Rumor (1915-1990).
Di Maio deve pregare Salvini di tener conto del fatto che l’anima fichiana (e anche dibattistiana) del Movimento non accetta la via australiana nel contrasto all’immigrazione. Ma deve pure far notare ai quadri e alla governance del Movimento che sono in aumento, nella stessa opinione pubblica filogrillina, i consensi alla linea Salvini sui respingimenti dei profughi. Di Maio deve farsi concavo e convesso. Deve dire sì a Salvini, ma non deve urtare la magistratura. Deve tener conto dei mal di pancia di Fico e Di Battista, ma anche del sentimento popolar-populista.
Fatto è che, a torto o a ragione, la presidenza della Camera si va confermando come l’insidia più sottile per l’azionista di maggioranza di un governo. Per fortuna (di Di Maio), non ci sono sponde, in Parlamento, suscettibili di mettere in pericolo la navigazione del governo Conte (Pd e Berlusconi attendono la verifica elettorale delle europee). Altrimenti qualche problema in più gli si sarebbe presentato davanti. Come succedeva in passato. A volte sotto la regia della presidenza della Camera.

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