L'analisi
Lavorare stanca, ma non si vede l’ora di stancarsi
Le beghe del governo sono tante e Dio mi guardi dall’interferire. Mi contento di dispiacermi delle furie iconoclaste di taluni buontemponi, fondatori di movimenti e piattaforme ( che cosa vorrà dire “piattaforma”?) che azzardano stupidaggini ai danni della democrazia rappresentativa che, a sentir loro, sarebbe da “rottamare”. Difficile dire quanto io arrivi ad odiare questo neologismo ripugnante come la cosa che significa: distruggere, buttar via anche i rimasugli della distruzione. Il capo del governo passato si voleva prodigare in questo.
Questo governo, parte chi vorrebbe mandare al macero la democrazia, non vorrebbe annichilire il vecchio. I vecchi. Perché hanno lavorato tutta la vita. Così sembrerebbe. Pretesto, la legge detta “Fornero”. Ricordiamo che fu approvata dal Parlamento con una maggioranza che comprendeva tutti salvo la Lega e l’Italia dei valori. Semplifico ricordando che, tra le altre cose, molte altre cose, allunga di molto la quantità di anni di lavoro prima della pensione e sposta drammaticamente molte scadenze prima del meritato riposo.
Lavorare stanca. E' un fatto. "Tu guadagnerai il pane con il sudore della fronte". Sta scritto. E il libro è libro autorevole. E di autore non discutibile, va detto. Ma dove sta scritto che dobbiamo anche esserne rassegnati, saggiamente proni? Orgogliosi addirittura. Questo non sta scritto da nessuna parte. E non sta scritto da nessuna parte che ci sia inibito il tentativo umano, umanissimo, di stancarci meno, di sudare meno, di rassegnarci meno. E di riposare il settimo giorno, come l’autore del mitico contratto ha dettato, implicitamente alludendo anche al riposo di una “certa età”. Anzi di un’età certa!
Solo che dovremo continuare a traccheggiare con le frasi idiomatiche ed a trastullarci con eufemismi che scaccino la rassegnazione alla constatazione che “Tempus Fugit”, come era stampato sulle ceramiche delle pendole della zia: il tempo fugge, scorre via. “Sicut aqua delabimur” avvertiva il saggio filosofo. Come acqua scorriamo. D’accordo, ma, allora stabiliamo una volta per tutte una regola, che valga almeno per un ventennio, per andare in pensione ad un’età in cui la vita possa ancora riservarci gioia e soddisfazioni. Altrimenti l’acqua si farà pantano e annasperemo per tentare di fregarlo questo esoso stato sociale con il suo assistenzialismo micragnoso che sta lì a vedere che si stancherà prima: noi di lavorare o lui a prenderla per le lunghe con tutti trucchi della burocrazia rocciosa e inespugnabile per risparmiare. Per risparmiare sui nostri soldi che ci sono stati sottratti, prelevati, requisiti con la promessa di consolarci della stanchezza del lavoro aprendo le vie della età serena della maturità. Della vecchiaia? E sia! Ma non fate aspettare troppo quel giorno al lavoratore, benedetto Iddio! A proposito è Lui che ha stanziato le speranze nostre nel settimo giorno di riposo.
Ma vediamo che cosa è cambiato nelle ultime attese del futuro.
Siamo arrivati trafelati allo stipite della porta del terzo millennio. Trafelati e rassegnati. Molti preoccupati, ma in molti di più sono arrivati disoccupati e anelano di sostituirsi a noi. Ohibò! Che cosa è questa faccenda? Lavorare stanca, ma tutti non vedono l’ora di stancarsi. E sudare. Trentacinque, quaranta, anche cinquanta ore. I più furbi, più che il lavoro, bramano il posto, ma non bastano a compensare chi sente non dico la vocazione, ma il dovere del lavoro.
Non sarà, dunque vero ciò che, per niente rassegnati, proclamavamo in tempi men feroci e più generosi? Lo ricordate? "Lavorare meno, lavorare tutti." Così come fu attendibile la lagnanza cantata dai nostri padri: “Se otto ore vi sembran poche provate voi a lavorar”
Il 3000 risolverà tutto. Ma abbiamo tempo e pazienza di aspettare? Per ora ci affanniamo a sfiancarci a guadagnarci non solo il pane, ma abbondante e saporito companatico globale senza tema di eccessi di traspirazione della fronte e senza curarci di essere più realisti del Re dell’Universo e più severi del Padre.
Sono convinto che Egli ci abbia concesso implicitamente di sbuffare, sopportare, pazientare fino alla fine dell’orario sindacale. Il Mercato non era nel disegno divino realizzato nei fatidici sette giorni. Non risulta. Il mercato è faccenda che abbiamo studiato e realizzato in questa valle di lacrime. Milton, nel suo “Paradiso perduto” avverte che i progenitori affrontarono il futuro terrestre non senza un certo ottimismo produttivo ed imprenditoriale e sorridendo, non dico soddisfatti, ma, almeno, speranzosi di passarsela benino nei secoli dei secoli a venire, partorendo con dolore, ma anche con soddisfazione centinai di generazioni di pargoli pragmatici.
Per ora, comunque, si lavora sodo e si lavora duro. E’ vero: i privilegiati del villaggio globale si riservano il sudore della fronte più lieve convocando i coinquilini del pianeta meno fortunati sulle fatiche più sgradevoli e amare. E, così, riempiamo le basse cucine di sguatteri extracomunitari e le catene di montaggio di sfortunati magrebini. I paria fanno la fila ai semafori. L’economia galoppa e la tecnologia e l’informatica prospettano futuri fantascientifici di un mondo abitato da ricchi dominatori. Tuttavia non si può negare che s’è fatto pochino per escogitare un sistema per ridurre per tutti al minimo indispensabile la fatica, mettendo scienza e tecnologia alla frusta per trovare il modo per alleviare la durezza della corvée di tirare a campare. E temo assai la supremazia dispotica del mercato, questa nuova divinità cui siamo pronti a sacrifici umani purché praticati sui poveri del pianeta e non a danno dei figli privilegiati.
Troppo in fretta abbiamo accantonato tra i residui della grande abbuffata del “novecento breve” e così rapidamente trascorso, le ideologie e qualche scriteriato vuole “rottamare la democrazia”! Fermiamoci a riflettere: qualcosa di buono c’era, come ho accennato ricordando lo slogan giovanile che ammoniva “Lavorare meno lavorare tutti.” Proviamo a cambiare le carte in tavola: “Lavorare tutti, lavorare meno e lavorare meglio.” Il Padreterno sorriderebbe.