Qualcosa di magico nei racconti
Quel buco nero del petrolio
Mattei decise di dare impulso alle ricerche
C’era qualcosa di magico e di fosco nei racconti sulfurei delle popolazioni dell’Appennino. Raccontavano di lingue di fuoco che improvvise brillavano nella notte, parlavano del Diavolo e dell’odore d’Inferno che all’ora del tramonto ammantava la montagna per poi ridiscendere verso le vallate. Ben oltre le leggende del Settecento, la presenza di fuoriuscite superficiali di petrolio e gas in Basilicata viene documentata fin dai primissimi anni del Novecento. Questo spinge la società Petroli d’Italia a stipulare le prime concessioni con i proprietari terrieri per la ricerca di idrocarburi. È il 1912. Ma la ricerca si rivela totalmente infruttuosa.
Come cercatori dell’oro nell’ovest d’America, tuttavia, l’esplorazione continua. Negli anni Quaranta nell’lta Val d’Agri erano al lavoro oltre una ventina di pozzi, con una produzione ancora modesta. Ma gli esperti dell’Agip, che questi territori hanno cominciato a frequentare fin dagli anni Trenta, guardano lontano e negli anni Sessanta sono certi di avere i piedi su uno dei più grandi giacimenti d’Europa. Una data importante: il 1958. È l’anno in cui Enrico Mattei imprime nuova linfa alle ricerche, in pochi mesi vengono scoperti i giacimenti di Grottole e Ferrandina, di Rotondella, di Pomarico fino a risalire verso la valle dell’Agri con l’ultimo pozzo che Agip mette in funzione a Tramutola. Ma dovranno passare almeno altri trent’anni. Dal pozzo Molte Alpi 1, nel cuore della Val d’Agri, il petrolio comincia a zampillare nel 1988. Da quel momento, planano in Basilicata tutte le altre multinazionali da Edison a Enterprise, nasce il Centro Olio di Viggiano e il lungo oleodotto che congiunge il Centro viggianese alla raffineria di Taranto.
La grande avventura del petrolio in questa terra è controversa. E il dibattito è acceso da sempre: è stata ed è una straordinaria occasione di sviluppo o si è tradotta in un business per le compagnie petrolifere? Qualcuno ricorda cosa fosse viaggiare lungo la Val d’Agri almeno fino alla soglia degli anni Novanta. Percorrere la statale 598 era come fare un bel respiro e poi tuffarsi in apnea fino all’arrivo: una vallata bellissima e disabitata, eccezion fatta per i fascinosi borghi sui promontori e, oasi nel deserto, un bar sperduto o uno di quegli impianti di carburante nel nulla, come certi paesaggi statunitensi. Null’altro. Il vuoto. Una parte della ricchezza che l’estrazione degli idrocarburi lucani ha prodotto, è ricaduta sul territorio in maniera visibile, grazie agli accordi sulle royalty stipulati in sede di contrattazione negoziata tra Stato, Regione e compagnie. Ma più di qualcuno continua a gridare che quelle intese avrebbero potuto portare ben più soldi alle comunità locali, che si doveva continuare a trattare, che non ci si doveva accontentare. Proviamo a fare qualche conto: in un arco di tempo di dieci anni (ad esempio 2003/2013) la Basilicata ha intascato circa un miliardo e mezzo di euro.
Poi c’è l’ampio, delicatissimo capitolo ambientale. L’associazionismo radicale ha condannato la scelta di accordarsi con le multinazionali a prescindere: il territorio - secondo gli ambientalisti - è stato in ogni caso alterato dall’estrazione intensiva. C’è chi ha invece puntato il dito contro i controlli, definiti troppo blandi: va bene l’estrazione ma non tutti hanno saputo (o voluto) rispettare le norme. Su tutto, una considerazione: l’entità dei giacimenti lucani è di portata economica strategica per il settore energetico nazionale. I consumi italiani sono soddisfatti in minima parte dalla produzione nazionale e, quindi, il paese è fortemente dipendente dalle importazioni dall’estero, il petrolio lucano apporta così un notevole contributo in tal senso.
Controversa e straordinaria la storia dell’estrazione di idrocarburi. Un grande affresco di modernità che pure in alcune stagioni ha assunto le tinte di una inquietante guernica: gli scandali, i sospetti, le polemiche. E i lucani ancora divisi: è stata una disgrazia/ è stato un miracolo.