L'intervista
«Come Sarebbe Se Cambiassimo Il Passato»: Cappie trasforma ferite e inquietudini in rock
Un manifesto generazionale che intreccia nostalgia, isolamento e ricerca di senso, con chitarre distorte e voce graffiante
Si intitola «Come Sarebbe Se Cambiassimo Il Passato» il nuovo EP del pugliese Cappie, uscito lo scorso venerdì 19 settembre su tutte le piattaforme digitali, distribuito da The Orchard. Il progetto segna un passo importante nella carriera dell’artista, che con chitarre distorte e voce graffiante racconta fragilità, rabbia e vulnerabilità, dando vita a un manifesto generazionale dell’alternative rock italiano. L’EP esplora temi universali: il rimpianto, l’incomunicabilità filtrata dagli schermi digitali, l’isolamento e la ricerca della felicità. Un disco capace di parlare a chi, cresciuto ascoltando Ministri e Verdena, oggi ha qualcosa da dire.
Qual è la scintilla che l'ha portata a interrogarsi sul tema del passato e a trasformarlo in musica?
«Quando ho scritto questi brani ero in un periodo di forte tormento: ero insoddisfatto della mia vita, seppure dall’esterno sembrasse molto bella. Queste canzoni raccontano questo, l’accettazione che a volte cambiare sia necessario per trovarsi veramente, il trasferimento in una città come Milano che ha tantissimi pregi, ma anche difetti. È un po’ un diario di bordo».
Nei brani convivono rabbia, nostalgia e vulnerabilità: quali artisti o esperienze hanno maggiormente influenzato il suo modo di scrivere e suonare?
«Sono un amante del punk e del grunge anni 90: sicuramente al primo posto ci sono i Green Day, però anche band colossali come i Nirvana. Lato italiano, i Verdena mi hanno sicuramente lasciato qualcosa. Ultimamente una band che mi sta prendendo particolarmente sono i Biffy Clyro, che hanno sonorità molto varie ma mantengono un tiro energetico e a livello autorale sono davvero forti».
Viene dalla provincia barese: quanto ha inciso la sua terra d’origine, con il suo fermento culturale e musicale, nel percorso artistico?
«Probabilmente parte della ribellione viene da lì: cercare di lasciare la provincia e ambire a qualcosa di più è un po’ un leitmotiv della mia musica. Accanto a ciò questa ricerca mi carica di un’energia che poi permea per forza di cose anche in quello che compongo».
In «Soli Al Mondo» affronta il tema dell’isolamento: è un racconto personale o uno specchio di una generazione intera?
«Un po’ dell’uno e un po’ dell’altro. Parte sicuramente da un’esperienza personale, ma è anche specchio della vita in città, che a volte può sovrastarti. In questo contesto anche le relazioni umane ne risentono».
La sua musica affonda le radici nel pop-punk e nel grunge, ma con testi in italiano: quanto è importante portare questa urgenza sonora nella nostra lingua?
«Mi piacciono le lingue, ne parlo diverse, ma l’italiano è la mia lingua madre ed è importante potermi esprimere davanti a un pubblico di persone che viene da contesti simili ai miei e possa capire quello che sto dicendo per davvero. In più la lingua italiana è molto versatile, può essere dura e dolce allo stesso tempo, ed è sempre una bella sfida».
Se potesse davvero cambiare un momento del passato, crede che sarebbe l’artista che è oggi o preferisce pensare che ogni ferita abbia avuto un ruolo nel cammino creativo?
«Penso che ogni esperienza e ogni ferita mi abbiano portato a essere ciò che sono, nel bene e nel male. È chiaro che ci sono errori che con l’esperienza e il senno di poi non rifarei, ma anche in quel caso apprezzo l’insegnamento che hanno portato con sé».