L'intervista
«Cosa sono io»: con Cristiano Cosa la musica torna a chiedersi il significato dell'esistenza umana
Esce oggi il disco d'esordio del cantautore (composto fra Taranto, Roma e New York, dentro c'è anche Roberto Angelini): «Ho chiesto il "permesso" ad Heidegger di farmi le sue stesse domande, oggi l'umanità e drammatica, ha ricominciato a interrogarsi»
Un titolo che è insieme domanda ed enigma, ma anche un gioco di parole inevitabile: «Cosa sono io». Così il cantautore e polistrumentista tarantino Cristiano Cosa ha scelto di chiamare il suo primo album che esce oggi, 12 settembre 2025, un disco che porta nel cuore la ricerca di sé e intreccia la sua identità personale con quella artistica. Anticipato dai singoli Come Mi Viene, La Vita Cos’è, Girandola e La Voglia (quest’ultima accompagnata da una live session video con Roberto Angelini), l’album è il frutto di due anni e mezzo di lavoro tra Italia e Stati Uniti. Undici tracce che oscillano tra pop, cantautorato, ballad, funk e rock, guidate dal pianoforte e animate da una scrittura che non offre risposte ma mette in scena domande, fragilità e desideri. Un lavoro che nasce dalla collaborazione tra Cristiano e LuckyHorn Entertainment, casa di produzione italoamericana guidata da Davide Ippolito e Simone D’Andria, che ha coordinato la produzione esecutiva del progetto, mentre quella artistica è stata affidata a Francesco Gaudio. Le registrazioni si sono svolte tra lo StudioGaudio di Taranto e il SudEstStudio di Guagnano (Le), durante una residenza intensiva «vecchio stile» di cinque giorni. A completare il suono, l’intervento di Roberto Angelini, con chitarre e lapsteel. Il disco sarà presentato questa sera alle 19 a Taranto (SpazioPorto), e domani a Lecce per Piano City (Circolo Cittadino). «Sono trent'anni che aspetto questo momento, e forse una gestazione così lunga mi dà la possibilità di riconoscermi - racconta l'artista alla «Gazzetta» - è un disco esistenzialista, gioco col mio cognome ma sono serio, attraverso un'irrisolutezza che vive dentro di me da sempre».
Quindi è uno stato d'animo con cui è abituato a convivere...
«Oscillo continuamente sulla necessità di trovare un'identità, ho chiesto perfino il "permesso" ad Heidegger di parlare di esistenzialismo, di farmi le sue stesse domande, e questo fa capire quanto sia attuale il suo lavoro. Da qui ho tentato di costruire una mappa concettuale di identità, ma non perché abbia voluto scrivere un disco egoriferito, ma perché ho capito che più scavo nel mio particolare e nei miei abissi, più riesco a essere universale e di aiuto per altri. È un periodo storico dove l'umanità è drammatica, abbiamo ricominciato a interrogarci sul significato di esistenza, cosa ci muove...».
Il disco è un grande lavoro di team, come si è trovato?
«È stato fondamentale condividere il lavoro con la squadra perché sono riuscito a trovare una strada più chiara e definita, tracciare un percorso che avesse un significato forte e percettibile non solo per me. Il team è stato il mio porto sicuro, e anche io mi sono sentito ancora più a contatto con il mio potenziale».
Per definire questo sound c'è stato anche il contributo di Roberto Angelini, come vi siete incontrati?
«Fin dal principio, già dalle prime fasi di lavorazione, ci siamo resi conto che stavamo andando nella direzione di un disco cantautorale ed esterofilo, capace di guardare oltre i confini. Sentivamo il bisogno di un tocco di classe in più: così ho alzato la cornetta e Roberto mi ha accolto in studio. Lì abbiamo trovato la quadra: a un fantasista come lui ho lasciato campo libero, con la massima fiducia nel suo intuito e nella sua sensibilità. Il risultato è stata la vera ciliegina sulla torta».
Due anni e mezzo tra Italia e Stati Uniti, da Taranto si è spostato a Roma, poi New York: come hanno influenzato i diversi contesti geografici il processo creativo e la scelta dei suoni?
«Ho attraversato tante influenze, vissuto un vero e proprio tripudio di stimoli e contaminazioni. A New York avrò anche la fortuna di tornare per presentare l’album in un rooftop e in altre location speciali: un’occasione che rappresenta per me una spinta, soprattutto in questo momento in cui sono riuscito a raggiungere un traguardo così importante. E poi aver fatto il disco anche in formato vinile, a cui tengo particolarmente, rende tutto ancora più significativo».
L'album è accompagnato da un bellissimo artwork di Nicoletta Micheli che evoca il grembo materno, l’embrione come atto di nascita e rinascita. Quanto la dimensione visiva contribuisce a raccontare il concept?
«Penso che l'immagine debba già “suonare” di per sé. Bowie lavorava in maniera maniacale sull’immagine, voleva che producesse già musica, parlasse da sola. Ci siamo addentrati in questa riflessione, creando un nuovo embrione nato dalle ceneri di quello preesistente. Nel brano "Per Non Morire" c’è il senso di tutto: voglio fare musica per lasciare la mia impronta, per lasciare qualcosa, per “assassinare” il vecchio me stesso e creare una forma di progresso».
Cosa vorrebbe dire a chi ascolta questo disco per la prima volta?
«Quest'album nasce dal bisogno di essere ascoltato, è un segnale positivo ma anche un’interrogazione personale. Vuole condividere le stesse domande con chi ascolta, senza offrire risposte definitive, ma creando un calderone acceso, un fuoco vivo dentro ciò che siamo. L’obiettivo è far luce sull’essere umano, riportando alla coscienza ciò che a volte si è perso: restituire all’essere umano se stesso».