L'intervista

Seun Kuti a Conversano: «Il mio afrobeat è libertà»

Bianca Chiriatti

Figlio di Fela Kuti, presenta «Heavier Yet», prodotto da Lenny Kravitz. All'interno, tra gli ospiti, anche Damian Marley, figlio di Bob

Un disco fedele alle radici afrobeat, ma proiettato nel nuovo millennio, allargando i confini: è Heavier Yet (Lays the Crownless Head), il nuovo lavoro di Seun Kuti & Egypt 80, prodotto da Lenny Kravitz e con la partecipazione di Damian Marley e Sampa The Great come ospiti. Il figlio di Fela Kuti, padre e pioniere dell’afrobeat, torna quindi a distanza di sei anni sotto l’etichetta indipendente milanese Record Kicks: sei brani in cui si coglie forte lo spirito di resistenza e rivoluzione, sfida e lotta al cambiamento. E il 31 ottobre Seun Kuti sarà in Puglia, alla Casa delle Arti di Conversano (Ba), per una data del tour italiano che farà tappa il 29 all’Alcatraz di Milano, il 30 a Roma (Largo Venue), e il 2 novembre a Pordenone, per poi proseguire in tutta Europa, Regno Unito e in Australia. La Gazzetta ha avuto la possibilità di intercettare il musicista nigeriano e raccogliere un po’ di suggestioni sul nuovo lavoro.

Partiamo dal suo rapporto con l'Italia, cosa la lega al nostro Paese?

«Dopo la scomparsa di mio padre ho vissuto a Roma per un po’, e ho fatto un tour con la band che ho ereditato da Fela e in cui io stesso già suonavo da quando avevo 8 anni, gli Egypt 80. Ho molti amici in Italia, il mio management è italiano, ora anche la mia etichetta. Sento un legame speciale e me lo dimostra il pubblico che ogni volta mi accoglie con tanto calore. L’Italia sa essere un Paese accogliente e caloroso, spesso ci si sofferma sugli stereotipi, la pizza, la pasta, il cibo, ma voi sapete offrire molto di più!»

Raccontiamo Heavier Yet con delle parole chiave: quali sarebbero e perché?

«Passato, presente, futuro. È un disco che ha sonorità che guardano a quelle classiche dell’afrobeat, e che quindi guarda al passato; ma so che nel presente c’è tanta voglia di ascoltare questa musica. Inoltre è un album in cui ho voluto mischiare anche altre sonorità, per cui ha una visione rivolta al futuro».

Nel disco, tra gli altri, c'è la produzione esecutiva di Lenny Kravitz: come è stato lavorare con lui?

«È stata una benedizione. Chi non lo adora? Ci siamo scambiati dei messaggi su Instagram. Avevo visto che lui mi seguiva, per cui ho ricambiato il follow e subito gli ho scritto. Da quel momento ci siamo promessi che avremmo lavorato insieme: dopo alcuni incontri e chiamate, ci siamo ritrovati in studio a Parigi e lì è nata la magia. Ed è stato tutto spontaneo, ha da subito messo le cose in chiaro: “Voglio lavorare con te per rispetto nei tuoi confronti, di tuo padre e di tutta l’Africa”».

Tra gli ospiti c’è Damian Marley, che sensazione ha avuto nel collaborare per la prima volta con la famiglia Marley?

«Devo essere onesto: l’idea è partita dal mio manager. Lui ha avuto l’intuizione di unire le due famiglie: la nostra e quella dei Marley. Al di là della canzone, molti hanno rivisto in questa collaborazione ciò che sarebbe potuto accadere se Fela e Bob fossero ancora in vita. Ho conosciuto Damian diversi anni fa in un festival in cui suonavamo entrambi. Abbiamo chiacchierato tanto, ritrovarlo nel mio disco è qualcosa di entusiasmante. Ha chiesto di ascoltare tutte le canzoni per poter scegliere quella a cui pensava di poter dare un contributo più significativo. Ha scelto “Dey” e non me lo sarei mai aspettato, perché è quella più funky. Questo rende il brano ancora più speciale».

In Italia, ma anche in tutta Europa, quest'estate l'afrobeat per popolarità e numeri ha superato il reggaeton: che momento sta vivendo il genere?

«C’è una distinzione tra afrobeat e afrobeats: quella “s” finale, che a me piace dire che identifica la “$” di dollaro. La Nigeria viene rappresentata in questo momento attraverso la musica afrobeats. Può essere considerato un bene, perché aiuta la nostra nazione a emergere attraverso la musica. Ma è un male se poi si pensa che la rappresenti in maniera distorta. In quelle canzoni si parla di una piccola minoranza della popolazione, quella a cui piace fare festa, che è ricca, che vuole avere successo a tutti i costi. La mia musica parla di altro. Parla di chi si ritrova dalla parte opposta, di chi soffre, di chi ha difficoltà ad emergere perché non ha pari opportunità.

Il disco è pieno di messaggi sociali: qual è quello a cui è più legato e vorrebbe trasmettere alle generazioni future?

«Di non farsi illudere dal concetto di libertà. La società capitalista in cui viviamo ci fa credere che risieda nel lusso, nel denaro, nel successo. Ciò che auguro a ognuno è di sentirsi libero di esprimere se stessi, difendendo i propri ideali, le convinzioni, senza diventare pedine al servizio del capitalismo».

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