Musica è...
La sobrietà autentica e culturale di Pollini
Impossibile stilare una classifica dei migliori pianisti del mondo, ma lui è stato un vero maestro. Il concerto a Bari
Maurizio Pollini si è spento, a 82 anni, dopo l’aggravarsi di condizioni di salute che già negli ultimi tempi non gli avevano lasciato tregua. Avevo assistito al suo ultimo concerto barese, poche stagioni fa, nel quale aveva affrontato la Sonata Hammerklavier op.106 di Beethoven, bissando il primo movimento, del quale evidentemente non era soddisfatto, quasi a voler saldare i conti con se stesso.
Del resto, se non la sua severa e intransigente autocoscienza, Pollini non avrebbe avuto molti altri interlocutori da temere, perché per decenni è stato «il migliore». Intendiamoci, non era necessariamente il miglior pianista del mondo, e credo sia impossibile – per fortuna – stilare classifiche del genere. Ma Pollini si era sempre posto, in un certo senso, come un pianista diverso dagli altri. La sua superiorità tecnica era leggendaria, a dispetto delle umane fallacie che pure gli capitavano (e che avevano quasi un valore consolatorio per gli altri: «Sbaglia perfino Pollini, non sarà una tragedia se lo dovessi fare anch’io»).
Il suo rigore nella lettura dei classici derivava dalla cultura modernista, forse ereditata dal padre, l’architetto Gino Pollini, o dallo zio materno, lo scultore Fausto Melotti. Certo è che in Pollini la sobrietà, il less is more come riferimento costante nell’interpretare la grande letteratura ottocentesca, da Beethoven a Brahms, raggiungeva un vertice insuperabile, perché si faceva canone estetico e insieme tratto «socioculturale»: nessuno come Pollini è riuscito a incarnare il suo tempo, e pure la sua Milano, a parte Claudio Abbado, che non a caso è stato suo amico e sodale. Nelle scelte artistiche il Maestro esprimeva enorme intransigenza.
Pollini non si concedeva facilmente, ma prima che con società di concerti e orchestre, la selezione avveniva col repertorio; vasto, ma che – con la prodigiosa facilità di apprendimento e di dominio della tecnica che lo distingueva – avrebbe potuto essere sterminato. E invece Pollini ha ridotto il novero degli autori a pochissimi nomi: Bach, Mozart, Beethoven, Schubert, Chopin, Schumann, qualcosa di Liszt, Brahms. Poi il Novecento, anzi il «suo» Novecento, con Debussy, Bartók, la Scuola di Vienna e Strawinsky.
Rare pagine di Ravel e Prokofiev, poi – come si sa – il secondo Novecento, che nel repertorio del maestro milanese si limita a Boulez e Stockhausen, per concludersi con tre compositori italiani a lui legati da lunga amicizia (Sciarrino, Manzoni, Nono). I nomi eseguiti da Pollini erano, insomma, quasi esclusivamente gli autori consacrati, i mostri sacri. Se penso a un grandissimo artista italiano come Aldo Ciccolini, ad esempio, noto una differenza marcata. Ciccolini, che suonava anche con piccole orchestre e in società di provincia, eseguiva Deodat de Severac, Alexis de Castillon, Vincent d’Indy, Pick Mangiagalli, Elgar, Malipiero, il Liszt minore, Satie, Poulenc. Aveva enorme curiosità; e generosità. La mia non è però una critica, tutt’altro: penso che Pollini sia stato, da subito, dai suoi diciotto anni, un pianista «storico», un musicista consapevole di non rappresentare solo sé stesso, ma un’intera epoca.
E per almeno tre o quattro generazioni – a partire dalla sua – è stato un modello imprescindibile. Di questa condizione sentiva, opprimente, un peso che ha portato sino alla fine senza compiacimenti narcisistici, estranei alla sua indole, ma con un enorme, atroce e però provvidenziale (per noi) senso di responsabilità. Anche per questo gli va la nostra immensa gratitudine.