Musica è...
Le note romantiche delle «avanguardie»
Per lunghi anni, anzi decenni, la Deutsche Grammophon è stata «la» etichetta discografica per la musica classica
Per lunghi anni, anzi decenni, la Deutsche Grammophon è stata «la» etichetta discografica per la musica classica. Certo, esistevano marchi gloriosi, come CBS, Decca (che poi passò alla Polygram, stesso gruppo della Deutsche), EMI etc., ma la DG (acronimo notissimo, ai tempi del vinile) non aveva confronti. Del resto, vi incidevano quasi tutti i più grandi (da Karajan a Kleiber, da Michelangeli alla Argerich, da Perlman a Rostropovich). La sua autorevolezza le imponeva di muoversi con cautela nelle strade meno battute del repertorio, perché il suo ruolo era indicare «la via maestra». Nonostante ciò la casa discografica tedesca mostrò un certo interesse per le avanguardie del secondo Novecento, tanto da pubblicare (fino agli anni Novanta) l’integrale di Stockhausen, e pagine di Boulez, Berio, Nono, Ligeti e persino di un eccentrico come Bussotti, di cui ricordo The Rara Requiem, Bergkristall e Lorenzaccio (questi ultimi diretti da Sinopoli).
È dunque di estremo interesse la ripubblicazione di una storica raccolta di 21 cd, intitolata appunto, Avantgarde.
Un’occasione in più per riflettere su un’esperienza musicale tanto fondamentale quanto fraintesa, e oggi sostanzialmente rimossa.
Nel cofanetto ci sono autori importantissimi, anche se non sempre nelle loro opere più riuscite, quelle che la storia ha poi decretato come capolavori; ma anche autori oggi dimenticati, e forse non del tutto a ragione. Così a John Cage, Karlheinz Stockhausen, György Ligeti, o Mauricio Kagel, si affiancano «desaparecidos» come Roland Kayn, Roman Haubenstock-Ramati e Dieter Schnebel.
Oggi scomparsa dal repertorio concertistico, al quale a dire il vero non è mai appartenuta del tutto, spesso l’avanguardia nasceva come reazione e persino protesta non tanto a un linguaggio quanto a un contesto, a un modo di comunicare la musica, che ai rivoluzionari e spesso profetici compositori sembrava stantio. E oggi, ascoltando con attenzione alcune di queste registrazioni, l’impressione, spiazzante, è quella di ascoltare musica «romantica».
Attenzione, non certo in senso linguistico. Molta di questa musica è del tutto atonale, priva di riferimenti armonici, di melodia, di quelle che sono le caratteristiche più diffuse della musica classica tradizionale, come anche della odierna musica di consumo.
E però, al di là della patina scomoda, della fatica dell’ascolto, e in alcuni casi anche della modestia degli esiti artistici (non sempre la cronaca diventa storia), quello che commuove, di questa musica, è la tensione ideale, la visionarietà di musicisti che avevano un’idea del mondo, che cercavano di immaginare qualcosa di «inaudito», che inventavano oggetti sonori, che – sovvertendo le carte, schiaffeggiando sonoramente le convenzioni – altro non facevano che stimolare un nuovo pubblico, una nuova modalità di ascolto, un mondo nuovo. La musica era in cammino, come il titolo di una composizione di Luigi Nono, Hai quecaminar, ispirata a una frase che Nono aveva letto a Toledo sul muro di un antico chiostro, «Caminantes no hay que caminar»: o voi che camminate, non vi sono strade, c’è (solo) da camminare. Credo che, a prescindere dalle scelte di ciascuno, in fatto di musica, a questi sognatori, non sempre «vincenti», ma invece eroici, perché capaci di restituire alla musica una dimensione etica – oggi non così scontata – si debba guardare con riconoscenza e ammirazione. E, possibilmente, ascoltare le loro musiche, spesso messaggi che, ancora chiusi in vecchie bottiglie, ci chiedono, imploranti, di essere letti. E possibilmente amati.