Il caso

Taranto, strage di Palagiano: autori ancora ignoti

Vittorio Ricapito

Il presunto mandante è deceduto l’estate scorsa. Confermata la condanna nei confronti di Ruffano. Nel processo di secondo grado assoluzione per Daraio

TARANTO - Resta senza colpevoli la strage di Palagiano, l’agguato messo a segno il 17 marzo del 2014 in cui morirono Carla Maria Fornari, suo figlio di neanche tre anni e il compagno della donna, il pregiudicato Cosimo Orlando. Ieri la corte d’assise d’Appello ha scritto quello che salvo colpi di scena probabilmente sarà il capitolo finale della storia processuale della vicenda. Giovanni Di Napoli, detto «Nino O’ calabres», condannato in primo grado all’ergastolo quale mandante della strage, è morto il 18 luglio all’età di 65 anni portando via con sé tutti i segreti e i paragrafi mai scritti di questa terribile storia.

La sentenza di secondo grado, emessa ieri dalla corte presieduta dal giudice Giovanna De Sciciolo, ha dichiarato estinto il processo nei confronti di Di Napoli per morte del reo e ha assolto dall’accusa di ritrattazione l’imputato Antonio Daraio. Respinto invece il ricorso di Giuseppe Ruffano, per il quale la corte ha confermato la condanna di primo grado, accusato in concorso con Di Napoli del furto dell’auto usata come copertura la sera dell’agguato. I genitori della Fornari si sono costituiti parti civili con l’avvocato Fabio Salomone che ha chiesto un risarcimento dei danni per 5 milioni di euro. Alla vigilia del processo d’appello, Di Napoli aveva lasciato il carcere perché gravemente malato. Nel corso delle prime udienza il procuratore generale Nicolangelo Ghizzardi aveva posto in risalto, così come evidenziato dalle indagini, la colpevolezza di «Nino il calabrese», che secondo l’accusa pagò tra i 50 e i 70mila euro dei sicari, probabilmente provenienti da fuori regione, ordinando la «clamorosa e plateale» esecuzione di Orlando e della compagna Carla Fornari, con cui anche Di Napoli intratteneva una relazione caratterizzata da incontri notturni clandestini quando Orlando doveva rientrare in carcere per la semi-libertà.

Il movente, secondo la ricostruzione della sentenza di primo grado, era duplice: da un lato maturato per gelosie e rivalità dovute alla donna contesa, dall’altro ulteriormente acuito nell’ambito di contrasti con Orlando, che pur essendo subordinato nella scala gerarchica della malavita, da tempo mancava di rispetto al boss, arrivando a danneggiargli l’auto e perfino in un’occasione a schiaffeggiarlo in pubblico all’interno di un bar di Palagiano. La ruggine era antica. Nel 1998 Orlando era finito in carcere per un duplice omicidio e dopo si era lamentato con Di Napoli della mancata assistenza economica durante la detenzione.

La sera del 17 marzo del 2014 sulla stradale statale 106 ionica un commando armato affiancò la Chevrolet Matiz su cui viaggiava la coppia insieme ai tre figli della donna, avuti da una precedente relazione con un altro pregiudicato, Domenico Petruzzelli, anch’egli morto in un agguato di mala nel 2011. Dall’auto dei sicari partirono 13 colpi di pistola, tutti andati a segno. La donna era al volante. Il figlio più piccolo era sul sedile anteriore, in braccio a Cosimo Orlando e fu colpito dalla scarica di proiettili. Gli altri due piccoli, di 6 e 7 anni erano sul sedile posteriore e riuscirono a salvarsi.

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