Lo speciale
Icaro, a spasso con Franco Arminio: «Paesaggi, cura dell’anima e della memoria»
La visione e le idee del poeta, documentarista e paesologo avellinese di Bisaccia, classe 1960
Comincia tutto con Martin Heidegger e quella famosa domanda: «Cosa vede un ingegnere in un fiume come il Reno?». Ci vede una centrale idroelettrica. È lo sguardo della tecnica moderna che declina la natura come risorsa o riserva e la “pro-voca”, nel senso che ne cambia il significato, la vocazione. La pensa solo in funzione di un possibile impiego.
Nonostante tutta la melassa ecologista che ci spalmiamo addosso ogni giorno, non ci siamo liberati da questa trappola. Un casolare in un borgo è un potenziale bed & breakfast, un sentiero in montagna è uno sbigliettamento garantito, uno spiazzo assolato un’ottima piana per pannelli fotovoltaici. Siamo meno grevi, meno meccanici, ma perfino più violenti perché non c'è nemmeno la cattiva coscienza a fermarci. Pro-vochiamo il paesaggio nascosti dietro un bollino green. Abbiamo preso la bellezza e l’abbiamo fatta consumo, per salvarla ci mancherebbe. Resta però da capire che fine ha fatto il passeggiare «avendo in tasca soltanto le mani» di cui scriveva Franco Cassano nel Pensiero meridiano.
Il sentiero per il sentiero, l’albero per l’albero, il mare per il mare, il borgo per il borgo. Il paesaggio in sé, senza provocazioni.
L’abbiamo dimenticato, costruendoci sopra, persi nel «disorientamento senza memoria» come spiegava James Hillman, quello dell’anima dei luoghi, un altro arruolato sistematicamente quando si tratta di servire una rapa al cliente menandosela da sciamani (“ama l’ingrediente”). E allora Icaro ha deciso di farsi accompagnare in una passeggiata del pensiero da Franco Arminio, avellinese di Bisaccia classe 1960, poeta, documentarista e paesologo. La freschezza del suo pensiero sta nel non cedere alle mode e alle retoriche ma, soprattutto, nel non disprezzare l’umanità. Almeno non tutta.
Cosa rara in tempi di ecologismo apocalittico. «Il paesaggio è quasi sempre umano – spiega – quando noi vediamo la natura c’è sempre l’intervento dell’uomo, anche se si tratta di uno che è passato di lì cento anni fa. Ha comunque introdotto una modifica». I paesaggi hanno bi- sogno di esseri umani per esistere, altrimenti si annoiano, direbbe a rinforzo David Le Breton. Il succo è che l’uomo ha un grande potere, «costruttivo e distruttivo», e se il paesaggio è bello «è anche merito nostro. Non dobbiamo sopravvalutarci ma nemmeno sottovalutarci».
Due sono i concetti che guidano la lettura di Arminio: uno è il paesaggio non come «tappeto da calpestare a piacimento» bensì come farmacia, «perché quando siamo intossicati dal mondo interno, rivolgere lo sguardo all’esterno un po’ ci cura». L’altro è legato all’umanesimo delle montagne, alla riscossa del piccolo borgo, alla rivincita della periferia sui centri nevralgici e nefasti. Il bisogno del noi che sovrasta l’ipertrofia dell’Io.
Il punto si sviluppa partendo dalla sua nemesi, la grande metropoli. Shangai, Dubai, Abu Dhabi. Autocelebrazioni del tempo presente. «Siamo oltre i non luoghi di Marc Augé – riprende amaro Arminio -. Quelli erano frammenti: aeroporti, stazioni, parchi. Queste sono realtà gigantesche, tutte uguali, orrende. È la globalizzazione estetica, culturale. Vince la macchina e l’individuo è solo un operaio nel- la piramide delle merci e del consumo».
Con il corollario che la maggioranza di noi in questa specie di prigione dorata non ci sta da ricco, ma da povero. «Una segregazione volontaria, la follia del mondo». Da qui sorge l’esigenza del ritorno alla misura d’uomo. Il limite più seducente della dismisura. Una speranza, una suggestione possibile con ancora pochi anco- raggi al reale: «Le cose vanno abbastanza male – continua –. Dopo la pandemia la gente ha ripreso a fuggire dai paesi. Soprattutto i giovani. Su venti ne vanno via dieci. Il problema è che abbiamo una doppia difficoltà: da un lato città invivibili, dall’altro paesi che purtroppo guardano a quel modello e portano dentro se stessi logiche cittadine».
E così non ci sono né le città, né i paesi. Ma luoghi sospesi. Un problema per i residenti, ma anche per i viaggiatori che ama- no esplorare ciò che non è stato ancora livellato.
«Continuo ad amare il treno – conclude Arminio – ma nemmeno lì si parla più. Ore e ore in silenzio. Abbiamo disumanizzato pure quello». E allora cosa rimane? Rimane il gesto sacro dello sguardo sul mondo. Magari durante una semplice passeggiata. Magari avendo in tasca soltanto le mani.