Il reportage

Jenin, nel teatro di guerra l’ora dell’ultimo spettacolo

Francesca Borri

Dalla Cisgiordania martoriata il sangue e la speranza. Parla il direttore del Freedom Theatre

«L’ultimo spettacolo è cominciato che avevamo un morto, qui fuori. E si è concluso che i morti erano tre. Ora, poi, dopo l’ultimo raid, il palco neppure esiste più. Ma tanto: non esiste più neppure la strada per arrivare. Diciamo che non è il migliore dei momenti». Mustafa Sheta ha 42 anni, e nella sua vita, ha visto tanto. Durante la Seconda Intifada, il Freedom Theatre di cui è direttore è finito in macerie insieme a mezza Jenin. Era il 2002, l’era di Ariel Sharon. Ma all’epoca, Jenin era sulle prime pagine di tutto il mondo. Vent’anni dopo, per israeliani e palestinesi il 2022 è stato l’anno più brutale, da allora, l’anno con più vittime, e il 2023 sta già andando peggio: le vittime sono già quasi 200, di cui il 45 per cento civili. Il 23 per cento bambini. E Israele ora non solo spara: bombarda. Il 3 luglio, l’esercito è entrato nel refugee camp con oltre mille uomini, uno ogni 11 palestinesi, e ha lasciato più di 15 milioni di dollari di danni in meno di mezzo chilometro quadrato. Ma all’ombra dell’Ucraina, non è una priorità.

E ripartiti i giornalisti, a Jenin non c’è più nessuno.

Eppure, fino a ieri venivano tutti qui. Il Freedom Theatre è stato a lungo un viavai di artisti e attivisti di ogni dove, icona degli anni in cui i palestinesi, fallita la Seconda Intifada, hanno scelto la resistenza pacifica, sul modello del Sudafrica di Nelson Mandela: appellandosi alla comunità internazionale. «Eravamo la più perfetta delle storie: un happy end di quelli che amate tanto», dice Mustafa Sheta. Perché il Freedom Theatre è stato fondato da Arna Mer. Da un’ebrea. E poi è stato ricostruito da suo figlio, Juliano Mer-Khamis, insieme a Zakariya Zubeidi, l’unico dei suoi amici di sempre ancora vivo: diventato intanto il comandante delle Brigate al-Aqsa. Il ricercato numero uno. Per il Freedom Theatre riconsegnò le armi. «Ma poi Juliano Mer-Khamis è stato assassinato», dice. «E Zakariya Zubeidi è di nuovo in carcere, ora. Di nuovo un combattente». E il Freedom Theatre è deserto.

«Nell’ora più difficile, sono spariti tutti».

E non c’è più discussione, dice. Non c’è più riflessione. Proprio adesso che sarebbe più urgente che mai. «Perché questo non è un momento qualsiasi: questa è la fine del processo di Oslo. Con oltre 130 insediamenti, e un colono ogni 5 palestinesi, non c’è più spazio per un nostro Stato. E soprattutto, dall’altra parte non c’è più Rabin. C’è Netanyahu. C’è un ministro alla Sicurezza, Itamar Ben-Gvir, che fu esonerato dalla leva perché troppo estremista: troppo pericoloso. Ma andiamo avanti come sempre. Sempre uguali dai tempi dell’OLP», dice. Anche se le questioni aperte sono sempre di più. «Come ti misuri oggi con Israele? Con le trattative, con le armi, con i tribunali? Con la disobbedienza? Le sanzioni? E che tipo di Stato vogliamo? Al di là di uno o due Stati: che tipo di istituzioni? Religiose? Laiche? O magari socialiste? Che tipo di economia?», dice. «E invece, non si parla che di Hamas e Fatah».

Si ragiona solo in termini di partiti, ormai. Di movimenti, brigate. In termini collettivi. Gli accordi. Le parti. Ma, al fondo, il cambiamento è il cambiamento dei singoli, dice. E la vera resistenza, quindi, la vera Intifada, e anche l’unica possibile, qui, dato lo squilibrio di forze, è una Intifada culturale. «Perché la prima delle domande è: Chi sei? E che ruolo hai? Il teatro è uno specchio della realtà. Ti guardi sul palco, e guardandoti dall’esterno, capisci chi sei: e se sei quello che davvero vuoi essere». Perché la libertà non è solo la fine dell’occupazione, dice. «Se poi ti arriva uno come Mahmoud Abbas (alias Abu Mazen), o la Sharia, che libertà è? Pensa al Libano. Israele si è ritirato nel 2000: ed è tutto ancora un disastro».

Mahmoud Abbas, il presidente dell’Autorità Palestinese, è venuto qui, l’altro giorno: non veniva dal 2012.

Il suo mandato è scaduto nel 2009. Le ultime elezioni sono state nel 2006. Il problema di Jenin è che è vicina agli israeliani e lontana dai palestinesi. Nel senso che è a venti minuti dal confine: e quindi è da qui che è più facile infiltrarsi oltre il Muro, e andare a Tel Aviv, e sparare. Per Israele, è l’obiettivo numero uno. Ma è anche lontana da Ramallah. In cui si concentra larga parte delle ONG. E dei fondi internazionali. Con progetti più tecnici. Un reparto di ospedale, un po’ di energia solare. Progetti che non sfidano l’occupazione. Mirano solo a renderla più vivibile. E soprattutto, progetti più tangibili. Più visibili. Più immediati da vendere ai donatori.

Come dimostrare il cambiamento interiore? Meglio piantare alberi e aiuole e cambiare uno slargo d’asfalto.

Il bilancio del Freedom Theatre è diminuito da 500mila dollari a 22mila. I suoi dipendenti da 14 a 3. Più che il suo direttore, Mustafa Sheta, due lauree e un master, ora è il suo tuttofare. E l’islamizzazione di Jenin, parte della più generale islamizzazione del Medio Oriente di questi ultimi anni, ha complicato ulteriormente le cose. Jenin è sempre stata conservatrice. E nei momenti di crisi, Dio è ancora di più un rifugio. Con il risultato che ora molti sono diffidenti. Perché al Freedom Theatre si sta insieme, ragazzi e ragazze, perché molte ragazze sono senza hijab: ma anche perché si discute di tutto. Il Freedom Theatre è sempre stato più Brecht che Shakespeare. «Nessuno sa chi ha ucciso Juliano Mer-Khamis: ma soprattutto, perché è stato ucciso. Era un esempio di coesistenza, sì, era l’ebreo in mezzo agli arabi, ma era anche un esempio di sfida al potere: ogni potere. Incluso quello delle tradizioni, delle convenzioni. Del conformismo», dice Mustafa Sheta. «E qui, nessuno contesta il diritto alla resistenza armata, la sua legittimità: ma sottovoce, molti dubitano della sua efficacia».

Alle sue spalle, al muro, il ritratto di Arna Mer è ancora integro. E dritto. In tanti anni, e tanti raid, non si è spostato di un centimetro. Perché poi il Freedom Theatre è sempre stato anche per gli israeliani. Cosa sono diventati? Ai raid dell’esercito, ora si sommano i raid dei coloni: nel 2023, una media di 95 al mese. «In carcere avevo questo corso di perdono - non che avessi ucciso nessuno: ero del PFLP, che all’epoca era illegale. E ho detto al mio secondino: Ma ti ho già perdonato. Perché so perfettamente che la violenza degli israeliani non viene da dentro, da quello che sono, ma dall’esterno: dal modo in cui sono istruiti e addestrati, dal loro ruolo nella società», dice. Anche per gli israeliani, dice, è tempo di fermarsi, e chiedersi: Chi sono? Sono davvero quello che voglio essere?

Non ho mai odiato, dice. E mai odierò. «Perché la sfida qui non è solo rimanere sulla propria terra, non arrendersi. Non andare via. La sfida è soprattutto rimanere se stessi».

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