La Rubrica

Il dolce inganno dei ricci giganti

Alberto Selvaggi

Non ci sono più i ricci di un tempo come non c’è più il mondo che è stato

BARI - Un rebus serpeggia tra gli aculei cerebrali dei consumatori ittici del posto. S’è insinuato piano da settimane e settimane, offre soluzioni e insieme non ne dà. Ha la forma di una culla vaginale di corallo, di guscio da aspirare con voluttà dannunziana. È il giallo del riccio galiziano.
Ricco, eppure deludente. Seduttivo nell’aspetto, ma avvilente per la lingua. Neobarocco, ingannevole, vacuo come la prosa che distendiamo qui sulla pagina cercando di afferrare ciò che sfugge e perciò viene inseguito. Anche Ovidio, poeta della falsità amorosa, ce l’ha insegnato. È la strategia dei seduttori e delle seduttrici. Della vita stessa che se la gioca con la morte. Andremo sempre dietro a quel ventricolo raggiante piovuto dalla Spagna. Lo inseguiremo nell’incertezza, avvicinandoci e allontanandoci dalle pescherie, rimproverandoci per esserci cascati nuovamente proprio mentre ci ripromettevamo di rinunciare.

I costosi ricci della Galizia ti sorridono dai banchi, gonfi come pance di volpi gravide, cangianti nel colore, monumentali accanto ai nostri classici neri, denutriti come adolescenti barivecchiani. E invece no: il saggio sa che una stilla di liquore dell’organismo invertebrato locale che solo da pochi giorni sta recuperando polpa vale le cinque gonadi ipertrofiche di quello straniero. Tutto è incerto nell’echinoide iberico. Il sapore, solitamente alterato. La provenienza, che sulle labbra degli esercenti maieuticamente interrogati passa dagli scogli della Galizia ai fondali di 30 metri in Portogallo. Indizi contraddittori piovono anche sui tempi di stoccaggio: «Arrivano da noi dopo tre o quattro giorni», secondo i titolari dei negozi che rifiutano di acquistarli, «assolutamente no, hanno 24 ore al massimo», negano dalle gioiellerie marine che a 2.50 euro l’uno te li hanno appena rifilati.

Non ci sono più i ricci di un tempo come non c’è più il mondo che è stato. Tutto è fluttuante, relativo, e davanti alle pescherie, templi della fede del nostro stomaco, si intavolano filosofie papillari. Ci sono i venditori aristotelici che catalogano il prodotto straniero nell’undicesima categoria del nuovo gusto in atto: «Il riccio della Croazia invece, pieno e grosso, è uguale al nostro, cugino». I platonici che ne pescano l’essenza ambigua dall’iperuranio. Gli scettici neorinascimentali alla Montaigne che sospendono il giudizio. I sofisti che allargano le braccia ammettendo ipotesi discordi purché 10 euro, quando non 15, per quattro ricci li sborsi. E infine ci sei tu davanti al dilemma inestinguibile del riccio di Galizia. Che è l’essere o non essere che ancora regge il mondo.

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