Una mostra a Foggia Il fascino indeciso del pittore Altamura
di GIACOMO ANNIBALDIS
Era un barricadero Francesco Saverio Altamura, il pittore nato a Foggia nel 1822. Era un patriota, aveva conosciuto le carceri borboniche, e sosteneva che la sua arte non era descrittiva, ma partiva sempre da un’Idea. Sul genio non c’è sempre da giurare; perché le sue opere oscillano tra tocchi di raffinatezza e stilistiche mediocrità: un artista eternamente in mezzo al guado, indeciso tra l’innovazione e un romantico conservatorismo, venato di patetismo. Ma non c’è dubbio che la sua esistenza fu alquanto avventurosa: conobbe l’esilio, fu condannato a morte in contumacia, andò arruolandosi ad ogni campagna risorgimentale, e addirittura fu internato in manicomio (dai suoi stessi parenti). Inoltre ebbe tumultuose storie d’amore con pittrici straniere: la moglie greca Elena Bùkuras (dalla quale ebbe tre figli, i due maschi anch’essi pittori) e l’inglese Jane Eleanor Benham Hay (che gli dette anch’ella due figli, di cui uno, Bernardo seguì le orme dei genitori).
Alla sua morte, avvenuta nel 1897, Gabriele D’Annunzio scrisse l’epigrafe per il suo sepolcro a Napoli: «Saverio Altamura/ nobilmente visse/ d’amor patrio e d’arte/ Dalla suprema sentenza/ de’ Borboni colpito/ esule trasse/ in Toscana gentile/ ove conforto chiese ed ottenne la gloria».
Foggia (che già da decenni ha raccolto le sue opere) gli ha dedicato ora un doveroso omaggio, celebrando per la prima volta uno dei suoi più illustri cittadini. La mostra «La Patria, l’Arte, la Donna. Francesco Saverio Altamura e la pittura dell’Ottocento in Italia» - curata da Christine Farese Sperken, Luisa Martorelli e Francesco Picca e ospitata nelle due sedi di Palazzo Dogana e Museo Civico - propone 90 opere circa, affiancando alle tele di Altamura quelle di altri suoi contemporanei, da Domenico Morelli al terlizzese Michele de Napoli, ai toscani Serafino de Tivoli, Cristiano Banti, Vincenzo Cabianca... L’obiettivo dichiarato dai curatori è quello di «riuscire a delineare un profilo - chiaro e suggestivo - di un artista che, come pochi altri, ha saputo trasformare la propria arte nella perfetta incarnazione di un ideale patriottico, sentito come una forma di impegno civile e morale».
Facendo scorrere lo sguardo sui dipinti di Altamura, e tenendo comunque presenti le vicende della sua esistenza - che egli sublimò in un’autobiografia dal titolo Vita e arte, apparso l’anno prima della morte -, non si può non condividere il giudizio che egli fu «la personalità più contraddittoria, più inquieta, dalla vita più avventurosa e travagliata, della vasta schiera dei pittori pugliesi del secondo Ottocento» (Ch. Farese Sperken). E se è vero - come lui sostenne - che la sua arte è frutto di un’Idea, sembra altrettanto vero che essa subisce i colpi inevitabili della delusione di fronte al trasformismo delle ideologie e dei gusti. Basterebbe soffermarsi sul dipinto «Mario vincitore dei Cimbri» (soggetto dal forte sapore evocativo per quei tempi) che il pittore foggiano impiegò alcuni anni a finire: sembra quasi che Altamura avvertisse che quel tema e quello stile da lui adottato all’inizio avessero in sé qualcosa di superato e scivoloso. Il tema della «romanità» - così suggestiva per i tempi della rivoluzione francese e del regime napoleonico - aveva perso la carica eversiva. Tanto più che nel frattempo, anche l’idea risorgimentale era passata dal ribellismo del ‘48 alla stabilità del regime sabaudo dopo il 1861. Insomma, dopo la sbornia unitaria, non era più il tempo di dipinti come «La morte del crociato» (1848) il cui grido «Dio lo vuole» era passato dalla Terrasanta all’Italia nuova; né era il tempo di bozzetti come «Lo sbarco di Garibaldi al molo dell’Immacolatella» (1860), quadro di recente rinvenimento e che apre nuove prospettive sulla ricerca pittorica dell’Altamura con quelle sue «brevi sintetiche macchie di colore, con rapidi effetti di pennello», che lascerebbero presagire addirittura uno sguardo pre-impressionistico. E nemmeno era più il tempo di rievocare guelfi e ghibellini, come nei quadri della saga Buondelmonte, soprattutto in «I funerali» (1860), che a buon diritto può essere considerato il suo quadro migliore.
Tra suggestioni dell’antico, illustrazioni di capolavori narrativi e temi religiosi, l’arte incostante di Altamura mostra una versatilità che - fino a quando non si metterà rimedio alla grande dispersione dei suoi dipinti - ancora avvalora il giudizio critico espresso dalla sua più attenta critica, Costanza Lorenzetti, la quale già in un saggio del 1937 rilevava nella sua opera una ineguaglianza «di valore e di qualità», l’«inquieto oscillare» delle varie fasi creative tra «accademico-romantico, verista e naturalista». Con l’arte sacra, Altamura sembra recuperare quel rapporto con la sua Puglia, improntato a «odio e amore». Le committenze della chiesa di Castrignano de’ Greci nel Salento e quella della cattedrale di Altamura, nell’ambito di un radicale rinnovamento del tempio», corroborano il grande senso religioso del pittore negli ultimi suoi anni («fidem quaero»). Il suo «San Tommaso d’Aquino» per la chiesa di Altamura (1875), sta lì come una sintesi della sua ricerca pittorica: sul santo domenicano, in atto riflessivo e immerso in un interno conventuale, un Cristo benedicente affrescato sul muro offre un volume dal titolo Summa Theologica, quello appunto che sarà l’opera maggiore di Tommaso. Un riflesso di ciò che è diventata ormai, anche per il pittore, l’ispirazione divina dell’opera umana.
Era un barricadero Francesco Saverio Altamura, il pittore nato a Foggia nel 1822. Era un patriota, aveva conosciuto le carceri borboniche, e sosteneva che la sua arte non era descrittiva, ma partiva sempre da un’Idea. Sul genio non c’è sempre da giurare; perché le sue opere oscillano tra tocchi di raffinatezza e stilistiche mediocrità: un artista eternamente in mezzo al guado, indeciso tra l’innovazione e un romantico conservatorismo, venato di patetismo. Ma non c’è dubbio che la sua esistenza fu alquanto avventurosa: conobbe l’esilio, fu condannato a morte in contumacia, andò arruolandosi ad ogni campagna risorgimentale, e addirittura fu internato in manicomio (dai suoi stessi parenti). Inoltre ebbe tumultuose storie d’amore con pittrici straniere: la moglie greca Elena Bùkuras (dalla quale ebbe tre figli, i due maschi anch’essi pittori) e l’inglese Jane Eleanor Benham Hay (che gli dette anch’ella due figli, di cui uno, Bernardo seguì le orme dei genitori).
Alla sua morte, avvenuta nel 1897, Gabriele D’Annunzio scrisse l’epigrafe per il suo sepolcro a Napoli: «Saverio Altamura/ nobilmente visse/ d’amor patrio e d’arte/ Dalla suprema sentenza/ de’ Borboni colpito/ esule trasse/ in Toscana gentile/ ove conforto chiese ed ottenne la gloria».
Foggia (che già da decenni ha raccolto le sue opere) gli ha dedicato ora un doveroso omaggio, celebrando per la prima volta uno dei suoi più illustri cittadini. La mostra «La Patria, l’Arte, la Donna. Francesco Saverio Altamura e la pittura dell’Ottocento in Italia» - curata da Christine Farese Sperken, Luisa Martorelli e Francesco Picca e ospitata nelle due sedi di Palazzo Dogana e Museo Civico - propone 90 opere circa, affiancando alle tele di Altamura quelle di altri suoi contemporanei, da Domenico Morelli al terlizzese Michele de Napoli, ai toscani Serafino de Tivoli, Cristiano Banti, Vincenzo Cabianca... L’obiettivo dichiarato dai curatori è quello di «riuscire a delineare un profilo - chiaro e suggestivo - di un artista che, come pochi altri, ha saputo trasformare la propria arte nella perfetta incarnazione di un ideale patriottico, sentito come una forma di impegno civile e morale».
Facendo scorrere lo sguardo sui dipinti di Altamura, e tenendo comunque presenti le vicende della sua esistenza - che egli sublimò in un’autobiografia dal titolo Vita e arte, apparso l’anno prima della morte -, non si può non condividere il giudizio che egli fu «la personalità più contraddittoria, più inquieta, dalla vita più avventurosa e travagliata, della vasta schiera dei pittori pugliesi del secondo Ottocento» (Ch. Farese Sperken). E se è vero - come lui sostenne - che la sua arte è frutto di un’Idea, sembra altrettanto vero che essa subisce i colpi inevitabili della delusione di fronte al trasformismo delle ideologie e dei gusti. Basterebbe soffermarsi sul dipinto «Mario vincitore dei Cimbri» (soggetto dal forte sapore evocativo per quei tempi) che il pittore foggiano impiegò alcuni anni a finire: sembra quasi che Altamura avvertisse che quel tema e quello stile da lui adottato all’inizio avessero in sé qualcosa di superato e scivoloso. Il tema della «romanità» - così suggestiva per i tempi della rivoluzione francese e del regime napoleonico - aveva perso la carica eversiva. Tanto più che nel frattempo, anche l’idea risorgimentale era passata dal ribellismo del ‘48 alla stabilità del regime sabaudo dopo il 1861. Insomma, dopo la sbornia unitaria, non era più il tempo di dipinti come «La morte del crociato» (1848) il cui grido «Dio lo vuole» era passato dalla Terrasanta all’Italia nuova; né era il tempo di bozzetti come «Lo sbarco di Garibaldi al molo dell’Immacolatella» (1860), quadro di recente rinvenimento e che apre nuove prospettive sulla ricerca pittorica dell’Altamura con quelle sue «brevi sintetiche macchie di colore, con rapidi effetti di pennello», che lascerebbero presagire addirittura uno sguardo pre-impressionistico. E nemmeno era più il tempo di rievocare guelfi e ghibellini, come nei quadri della saga Buondelmonte, soprattutto in «I funerali» (1860), che a buon diritto può essere considerato il suo quadro migliore.
Tra suggestioni dell’antico, illustrazioni di capolavori narrativi e temi religiosi, l’arte incostante di Altamura mostra una versatilità che - fino a quando non si metterà rimedio alla grande dispersione dei suoi dipinti - ancora avvalora il giudizio critico espresso dalla sua più attenta critica, Costanza Lorenzetti, la quale già in un saggio del 1937 rilevava nella sua opera una ineguaglianza «di valore e di qualità», l’«inquieto oscillare» delle varie fasi creative tra «accademico-romantico, verista e naturalista». Con l’arte sacra, Altamura sembra recuperare quel rapporto con la sua Puglia, improntato a «odio e amore». Le committenze della chiesa di Castrignano de’ Greci nel Salento e quella della cattedrale di Altamura, nell’ambito di un radicale rinnovamento del tempio», corroborano il grande senso religioso del pittore negli ultimi suoi anni («fidem quaero»). Il suo «San Tommaso d’Aquino» per la chiesa di Altamura (1875), sta lì come una sintesi della sua ricerca pittorica: sul santo domenicano, in atto riflessivo e immerso in un interno conventuale, un Cristo benedicente affrescato sul muro offre un volume dal titolo Summa Theologica, quello appunto che sarà l’opera maggiore di Tommaso. Un riflesso di ciò che è diventata ormai, anche per il pittore, l’ispirazione divina dell’opera umana.